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sabato 28 gennaio 2012

Quasi febbraio



Arriverà l’inverno. È quasi febbraio, in effetti. Gelerà tutto il Nord, ché qui non siamo bravi a temperare. Folate sferzanti taglieranno i volti e piegheranno le ciglia. Le sciarpe abbracceranno sussurri di vapore; un istante, prima che le parole s’infilino nel giusto orecchio.
Nevicherà, lo so. 
Non ho le scarpe adatte. Esco di casa troppo presto. Ho un’auto fuorilegge, gomme lisce e sterzo anarchico.
Verrà giù come solo dio sa mandarla.
Ma io ho le mie cinque bottiglie. Sciroppo di menta, amarena, latte di mandorla, cedro. Una è piena di caffè. 
E ho il cucchiaio.
Spargerò i colori in giardino. Verde, rosso, avorio, giallo, testa di moro, finché il manto candido non si offenderà. 
Alla vicina dirò che sì, sono pazza; poi riderò a crepapelle.
Povera lei, non sa quanto sia buona un’immensa, multigusto, liberatoria granita fuori stagione.

venerdì 27 gennaio 2012

Oggi



Esausta
come la
batteria
di una Dyane
azzurra
del Settantasei.

Nient’altro.

mercoledì 25 gennaio 2012

Bra(i)nstorming


Sforzati, su! Sii razionale! Razionaaa... le. Razio(n)ale... dovrei avercelo quel software, dunque, in qualche remoto cantuccio del disco fisso. Be’, nel nome, per lo meno. Diciture vuote. Dici? Mi turo gli orecchi. 
Belli i giochi di parole, vero? Alcuni dicono che prolifichino applicando qualche banale regoletta di brainstorming. Eh?! Massì, la “tempesta cerebrale”, quella roba lì, molto in, che funziona come una catena di libere associazioni di idee. Io dico “pera”, tu “però” e io “aperol, grazie, con prosecco e oliva” (poi mi siedo al tavolo e sgranocchio patatine, godendomi il gelo del plateatico). Faccende legate al cervello, insomma; ammesso che non sia già fuggito chissà dove, ‘sto nomade impunito. Quando penso ai cervelli in fuga mi vengono in mente le galline di pongo, impegnate nella medesima attività. O il bancone del macellaio, con le vaschette piene di viscidume in bella mostra. Interiora, frattaglie, nervetti e il solito, sanguinolento blob di “cervella” (non mi spiego perché la sbobba debba essere femmina, oltretutto). Alla materia grigia inglese (sempre elegante, anche con uno spezzato nero, o con uno spezzatino al sugo), mi vien da togliere la i. Nemmeno il tempo di farsi attraversare dalla folgorazione e zot!, lo spot interrompe il flusso: «All Bran, bastoncini per il 27% in pura fibra di frumento». Ottima per i collant, in versione micro, la fibra. Bran? Toh! Si chiamava così pure il mio ex-capo. Ma che vorrà dire? Google, traduttore, da-inglese-a-italiano, et voilà. 
Crusca
Ecco. Lavoravo gratis. Al massimo. Per la crusca. Una buccia stopposa, «ricca di proprietà benefiche ed efficaci per la salute del mio intestino». Destino, o dici che se ne sono accorti? Ebbene sì, Vostro Onore in Scatola Gialla: sono irregolare. Ma non ho mai avuto problemi con le evacuazioni. E neppure con i piani di emergenza. 
Be’, quasi mai.

martedì 24 gennaio 2012

Sole in gennaio



Il lutto è una strana epifania. Quando incombe da lungo tempo, nube carica di vento, immersa in una sospensione elettrica, s’impara a conviverci. Ogni gesto richiede cura, va misurato per bene, perché il fiato che rimane nella gola è solo un fondo di bicchiere. 
E dopo l’attesa, tormento quotidiano e sottile, ecco il nembo farsi carne, all’improvviso. Corpo lucido, che lancia l’ultimo sguardo; al giorno, o alla notte, che diverrà un cerchio nero sul calendario di ciascun anno a venire. Come l’agognata maturità dei diciottenni, avrà finalmente forma. E saprà d’aria. 
Le parole, le poche rimaste, mimeranno riti necessari. Ma non si può comprendere la fine, ché siamo sangue e sogni. 
Incapaci di arrenderci, storditi, privati di umane, dolorose crociate da sostenere, rimarremo qui a vivere, stupiti di ritrovare la nostra ombra proiettata sul selciato. “È uscito il sole!”, ci spiegherà un amico. E noi non potremo fare altro che chiedere “E adesso?”

lunedì 23 gennaio 2012

Prima linea



Salvati dalla Concordia (che nulla ha a che vedere con la conformità di voleri e posizioni, o avete qualcosa da confutare?), i croceristi in gilet gonfiabile si rivelano per ciò che sono: poracci quasi riusciti a godersi una sudata e meritata vacanza o ricchi nullafacenti con la tremarella (e allora chi ve l’ha detto di andare a fare i novelli Ulisse danzanti? Usate lo yacht dello zio, la prossima volta). 
Lo zapping serale è snervante. Ti distrai un secondo ed eccolo, l’immancabile Vespa, con tanto di plastico (ma chi glieli fa, si può sapere? Vorrei tanto inscenare l’omicidio di Barbie...) e un ben addestrato manipolo di inviati-avvoltoi appollaiato sulle coste fronte-naufragio. E i comandanti, che commannare è mejo che futtere, ma se poi fai entrambe le cose, chi t’ammazza? E altri comandanti, che alzano la voce mentre premono rec e play, per garantirsi la medaglia; quella dell’eroe, che mena l’indice e onora la divisa. E ore, infinite ore di chiacchiere, dissertazioni, sfoghi di criminologi e avanspettacolo virato al nero. 
Adesso - i tempi erano maturi, diavolo! - si sono aggiunti loro, al putrescente panierino d’idiozia: i turisti horror. Dopo la faccenda di Cogne, bruciato l’ennesimo rullino, misurato l’ultimo centimetro da qui a lì, contati tutti i fili d’erba intorno alla baita, vagavano raminghi, senza meta, in evidente crisi di astinenza. 
Quello scoglio ha ridato loro lo stimolo. 
“L’isola del Giglio!”, si sono detti, giubilanti, “why not?”
Scattano fotografie, girano video. Con un gigantesco guscio di noce capovolto alle spalle. Sorridono. I più sensibili mostrano musi contriti all’uopo, con tanto di sopracciglia spioventi.
Il copione della miseria umana è sempre esattamente uguale a se stesso. Immutato nel tempo.
Caspita! No, non è l’orrore, a catalizzare l’esclamativo. È la noia.

giovedì 19 gennaio 2012

Tempismo



Aborrisco l’attimino. E il momentino? Lezioso e felino, adotta il solito trucco: fa le fusa; scioglie l’attacco sferzante del primo in una morbida consonante occlusiva, nasale, bilabiale di tutto rispetto, e Plaf!, senza che ve ne accorgiate, in un istante scatta la trappola della riduzione estrema. Il minutino - declassato pure lui da Standard & Poor’s? - aspira alla desinenza in “olo” giacché, segretamente, brama vestire i panni dell’ottavo nano di Biancaneve. Minutolo, quello che cronometra il tempo impiegato dalla squadra per coprire il percorso da A-casa a B-miniera, cantando “Andiam, andiam, andiam a lavorar”. Con il secondino, poi, si sfonda una porta aperta. Oddio, aperta mica tanto, in effetti! Quando egli si aggira dinanzi a un uscio esso giace, solitamente, ben serrato per antonomasia. O no?! (chiedo venia immantinente per la svista, onde evitare che il Sindacato degli Agenti Zelanti si metta sul piede di guerra).
Fatevene una ragione: l’attimino, il momentino, il minutino e il secondino (quello senza divisa, per intenderci) non-e-si-sto-no. Sono un parto (settimino?) della vostra indomabile accidia. Annoiati spacciatori di lettere, biechi frequentatori di Hello Kitty o della posta del cuore di Cioè, secondo voi, esiste davvero qualcosa di più rapido di un attimo? Di un momento? Per il minuto minuto, non vi avanza un secondo? (chiedetelo in prestito all’orologio da polso. Mi dicono essere un tipo generoso). E per il secondo, eventualmente, attenetevi alle opportune frazioni, o ai nani di cui sopra, accidenti!
Per farla breve (so che vi piace): la lingua italiana è complessa, d’accordo. Dovete usarla per chiedere un chilo di pane a chi di dovere, per sapere quando passa il 14, per evitare i cavolfiori a cena? Masticatela pure. Ma mica siete obbligati a improvvisarvi scrittori, per Diana! Lasciatela a riposo, la penna.
Per un attimo.
Un momento.
Un minuto.
Un secondo.
Un... ecco, meglio il silenzio.


mercoledì 18 gennaio 2012

Bam!



È sfiorita da pochissimo, l’alba. La casa è ancora imbottita di scura ovatta notturna. La scala la conosco bene, posso affrontarla anche a occhi chiusi: di legno levigato, lucidata con un solido strato di smalto azzurro, liscia. Un sacco liscia. Un po’ troppo liscia, specie se si scendono i gradini pensando ai crackers da infilare nella borsa per la fame della sera (quella che si presenterà, puntuale, a fine turno) e se si indossano caldi e ben pettinati calzini di lana. Quartultimo scalino. Terzultimo. Penul... 
BAM!
Bene: perché ho un inspiegabile spigolo piantato tra le vertebre? E come mai, mi duole terribilmente metà deretano? E ‘sta caviglia, che vuole da me, tutta strilli e maledizioni? Il polso! Non credo sia il caso di tenerlo ancora a lungo in questa posizione; temo non sia la quintessenza della naturalezza... 
Oh!, lo avrei fatto eccome, un ragionamento rotondo del genere, se solo non mi fosse mancato il respiro. Aria? Niente. Finita, dopo aver malamente tentato di succhiarne qualche centilitro dal corridoio attentatore.

Track!-Tud-tud! Bum-bum-bum-bum-bum!
«Sei inciampata sul cancelletto del nano?»
«No - hhhhhh! - scivolata - hhhhhh! - dalle scale - hhhhh! - che idiota! -hhhhhh!»
Puff-tick-tuck... «Maaaa-mmaaaa! Vieni qui?»

Ero in piedi, quando mi ha visto il piccolo. È bello sapere che c’è qualcuno che si scapicolla (nonostante ci sia una pericolosissima, lucidissima, liscissima scala bastarda, da attraversare con i calzini ai piedi) per controllare che i tuoi pezzi siano ancora tutti al loro posto. 
Qualcuno che ti sollevi dal pavimento, prima che un nanetto quasi treenne si spaventi per nulla.

lunedì 16 gennaio 2012

Un buco



È come un’ostia, benedetta dalle circostanze o dalla necessità. Il dischetto lucido - metallo e adeguate scanalature - s’infila in bocca, tra i denti; scende lungo la trachea, sfiora i polmoni. Tintinna nello stomaco, tra schegge arrugginite di fraintendimenti, offese gratuite, sgarbate opposizioni, e oplà!, il miracolo è servito: il sorriso a gettone brilla, finalmente, sulle labbra.
Scalda minuti dolenti, accarezza timori vestiti di rabbia, rassicura intellettuali annoiati, sopperisce ai “buongiorno” strozzati in gola.
Serve sempre, per una buona causa o per il passaporto.
Dlin-contrazione muscolare-condiscendenza.
Dlin-dlin-dlin-dlin-dlin.

Ho infilato la mano nella solita tasca. Deve esserci un buco, nella fodera.

Illuminazioni




Grazie a te, che me lo hai fatto conoscere (chevvifrega chi è "te"?). Diventerà la mia bibbia.
Bill Hicks e i giocolieri...

sabato 14 gennaio 2012

Il succo? È alla frutta



Ci sono cose che mi fanno passare la voglia. Certo, detto così non significa granché, d’accordo. Ma è l’espressione pop più vicina a quel buco - senza menta intorno - che si apre, nero e asfittico, tra le imprevedibili vie della pigrizia. Be’, di quello che gli umani pigri definiscono pigrizia. Perché, in realtà, non di questo si tratta. Una nausea lieve, che coglie all’improvviso alla quarta onda, un annuncio di voltastomaco capace di germogliare soltanto in un terreno fatto di inizi strozzati e di pillole dorate per palati sin troppo nobili.
«Ma tu, non eri quella simpatica, dallo stile garrulo e brillante?! Nel tuo vocabolario mica esisteranno termini inverecondi tipo Vaffanculo, vero? Oh! Perché se è così, non ci siamo proprio!»
Perdo entusiasmo per le situazioni che nascondono, più o meno velatamente, gli aloni ammuffiti del dogma. Rifuggo tutto quanto olezzi d’indottrinamento (forse per questo non rientro nell’ampio catino benedetto dei credenti). Me ne accorgo quasi sempre per tempo. E quando sono in ritardo, dopo la debita ingestione dell’inevitabile, purulento rospo, mozzo i rami rinsecchiti.
E chissenefrega. Delle cosiddette occasioni, delle dritte, delle lusinghe. Chissenefrega, se ne va del sereno “Ah, sì, ti riconosco” che ammicca dal fondo dello specchio.
Ho una faccia. Ma anche un paio di polmoni, un intestino, uno sterno. E - crepi l’avarizia! - addirittura un’ombra, che è a mia immagine e misura. 
Vi siete affezionati al tetrapak - perché è tutto colorato, liscio e poco ingombrante - e, accidempolina!, avete scordato che, lì dentro, non troverete altro che latte?
Ottimo. Ne approfitto per tornare alla bottiglia di vetro. Almeno, se vi venisse il ghiribizzo di sbatterla nel carrello, non immaginerete di ingollare un litro di succo tropicale.

giovedì 12 gennaio 2012

Lo stivale dei maiali



Ma dove diamine viviamo? E Maroni che la spara grossa, sfanculando segretamente il suo ex-mentore, e promettendo il voto a favore. E l’ex-mentore, meglio noto come L’Umberto (il cui nome indiano è   Beccati-Il-Dito-Medio-Duro-Che-Al-Resto-Ci-Ha-Pensato-La-Provvidenza-E-Guai-A-te-Se-Ridi), che sfancula Maroni, allarga le tasche, abbraccia Crapa-Bituminosa e dice “No, non lo ingabbiamo, il Coso, il Cosino, il Cosentino... massì, quella roba lì”. Compravendite che manco calciopoli (altra bella storia, quella) per salvare gli amici dei mafiosi... E poi? Referendum anticostituzionali. Sì, ma perché siamo un manipolo di babbei, ovviamente. Nati per abrogare, che proponiamo a fare? Ci basta firmare, ci basta! E ci sentiamo tutti più puliti dentro e più belli fuori! E ancora, cosa manca? Ah sì, i tassisti che minacciano scioperi a tradimento. A Venezia, per salire su un taxi acqueo e fare puff-puff sulle onde della laguna dall’aeroporto a Fondamenta Nove (8 minuti netti, fischiettando) chiedono Novanta euro. No-van-ta. “Eh va ben, ma ti sa quanto che ‘a costa ea licensa?” Costerà pure diciotto occhi della testa, ma quanto ci metti, con una tariffa oraria di Sei-cen-to-set-tan-ta-cin-que euro, a rifarti dell’anticipo?
Il guaio è che stiamo ancora qui a perdere tempo, a parlare di aria fritta. Liberalizzazioni? Ottimo, ben vengano! Ah, non mi fate pagare meno la benzina, ma mi permettete di comprare il borsone della mucca Lilla al distributore? Che culo!
Possibile che io, stipendiata (ancora solo per un paio di mesi) a 740 euretti sonanti, debba essere l'unica costretta a rimanere calma? 
Io non resto calma, cari i miei Monti, Maroni, Draghi e compagnia incassante. 
Voglio un lanciafiamme. Grosso. Rosso. Inesauribile. Voglio un lanciafiamme, perché sono esausta. Non ne posso più di ripetere “Ma se ne andassero tutti affanciufolo a manina, àffan...”. Voglio un lanciafiamme per farci un falò, con quell’allegra combriccola. Autodafé. Ma che incenerisca solo libri contabili e banconote. 
Voglio un lanciafiamme, accidenti.
E, come al solito, mi ricordo di chiederlo a Babbo Natale solo il 12 gennaio.

martedì 10 gennaio 2012

Sei piedi



Vado pazza per le serie tv. Specie quelle d’oltreoceano. Sono storie. Leggermente più verosimili delle soap opera, infinitamente meno barbose (e le riprese non si limitano a primissimi piani immersi in aloni sgranati a tinte calde). Patinate, ammiccanti, in camice verde o togate, appollaiate tra madri e figlie o a due passi dal cimitero (ricordate Six feet under?), portano il cervello a spasso per un’oretta o due. Mi piacciono perché, ogni tanto, il disimpegno deve essere un imperativo categorico e perché quelle, le serie (soprattutto le meno serie), non hanno pretese. Nulla da insegnare. Morale poca e a buon prezzo. Tempo restituito al tempo. Ozio allo stato brado, ecco. 
La fiction italiana no, però, per carità. Gli attori nostrani sembrano ignorare con dolo la reviviscenza di Stanislavskij. Fanno finta, e si vede (la chiameranno ficscion per qualcosa, in effetti...). Non voglio buttare al vento la mia inerzia, disturbata da continue pronunce abbozzate, o da titaniche ortoepie forzate. Né tollero la straordinaria abulia espressiva delle varie belle fighèire alla Laura Morante.
Per questo non sopporto alcune penne. Quelle che cavalcano - con sella, a pelo, contropelo, per dritto e per rovescio - argomenti cosiddetti “caldi”. No, non parlo della stringente necessità di “stare sul pezzo”, ma di chi si ostina a propinare ribollita spacciandola per riso cinese all’ananas. Quasi quasi m’invento una petizione per estinguere i botta-e-risposta infiniti, le repliche geniali e le controrepliche imbufalite. 
E, vi prego, finitela di scartavetrare gli ammennicoli con i millemila approfondimenti di cronaca nera: poraccia, è morta, d’accordo... e sì, io sono una cinica inascoltabile; ma di Sara Scazzi (con o senza acca? Sara, non gli Scazzi), a me non frega un... tubo. Tubo, va bene? Sarebbe stata un po’ troppo facilotta, la battuta; non trovate?
Anche se non fosse di Vigevano, ascoltatela, la casalinga disperata, ché ogni tanto ci azzecca in pieno e sa perfettamente che il gioco (macabro o rosa - chissene, è lo stesso) è bello finché dura poco. 
E ora torno a stirare. La biancheria incombe, e finire sei piedi sotto terra è un lampo.

venerdì 6 gennaio 2012

Cose di cassa. Primo episodio.



Pos. Puff! Pant! Strap. Una copia a me, una al cliente, lo scontrino e “arrivederci”. Sei tappe collaudatissime. Il tapis-roulant avanza. Altra merce in arrivo. 
La coda dell’occhio l’aveva già annusata: mini grigia da urlo (per i centimetri, chissenefrega del tono-topo!), leggings neri e spessi, scollatura fin troppo generosa, anellame e collanume abbaglianti e fittamente intarsiati di cocci di vetro, chioma tinta e vaporosa come una nuvola di drago. Una sobrietà alla Tina Turner, per capirci.
Poi le solite unghie, che sfilano un portafogli da adolescente romantico-cariogena dalla zip di una piccolissima borsa color prugna. Finte. Esageratamente lunghe. Quadrate. Dipinte con tanta precisione, che manco la Cappella Sistina.
Incollate alle cartilagini originali. Quelle vere, (gialle?), cresciute naturalmente. 

Poi ho visto le dita. 
Poi le mani intere.

Una mesta texture di chiazze brunastre decorava ogni brandello di pelle. Tutto quel molliccio derma rimborsato, intorno alle nocche, e giù lungo i tendini. Un chow-chow avvizzito. 
L’ho guardata in faccia. Una sciacquetta imbellettata (stratificazioni degne della Gioconda) di almeno sessanta primavere. Uhm, autunni, forse.
“Sono dodici euro e novantanove” (che il centesimo ci sta sempre sul culo, ma non ditelo a nessuno)
“Ecco a lei, signorina. Ma senta, se non va bene lo posso cambiare?”
(ma certo! Potrebbe disegnarci sopra con il rossetto, magari un cuore trafitto con un paio d’iniziali!) “Nessun problema, signora. Lei conserva lo scontrino e, entro otto giorni dalla data di oggi, glielo sostituiamo, il cuscino Yuppiayeah per il suo divano Viva&Gonna.”
“Otto giorni! Uauuu! Ah! - Scusi sa, sono un po’ svagata - ma quanti ne abbiamo, oggi?”
“È il sei gennaio, signora. Auguri.”
“Uh, che sciocca! La befana! Auguri, grazie e buon lavoro!”

Buon lavoro a me?! Ma buon lavoro a te, buondìo!

Pensa un po', evasori a Covtina... That's incredible!

Finanziere: «È suo, questo?»
Squattrinato Chic: «Questo, cosa?»
F: «Il macchinone»
SC: «Be’, non è poi così gvosso!»
F: «Non mi faccia perdere tempo. Glielo ripeto: è suo ‘sto Suv?»
SC: «Povca paletta, è un Suv?! Io l’ho compvato usato da uno sfasciacavvozze, che me lo ha spacciato per un Fiat128 d’annata!»

F: «Facciamo gli spiritosi?»

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http://www.larivistaintelligente.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1105%3Ainnocenti-evasioni&catid=39%3Asocieta&Itemid=263

giovedì 5 gennaio 2012

Quindici denari

Avanzo 15 euro. 
Tre pacchetti di Diana blu morbide. 
Settantuno sigarette abbondanti, per la precisione.
Avanzo 15 euro, gli ultimi dei 207 che ho atteso per tre mesi.
Ho elemosinato i miei soldi per quasi novanta giorni.
Me li hai dati, finalmente. Tutti, meno 15 euro.
Dovrei sfilarmi dalla gola un bel bolo di alterezza e, da vera signora, fingere che non mi siano stati indebitamente sottratti.
Insomma! Sono solo 15 euro, perbacco!
Già, ma sono miei. E li voglio.
E detesto l'idea di vestire i panni lisi della questuante. Ma non quanto la certezza che sia un tentativo di annichilimento. 
Avanzo 15 euro, cara la mia bionda chimica. E il giochino, lo so per certo, non lo hai fatto solo con me.
Non ti sembra disdicevole menar carte e, in pausa caffè, pianificare strategie per piegare la volontà, far chinare la testa, spedire la dignità di chi ti sta di fronte sotto il solito paio di suole bucate?
Avanzo 15 euro. 
Sono pochi, lo so.
Un quarantanovesimo del mio stipendio.


A fine giro, stasera, lasciameli nella calza.
Se non dovessi trovarli, tornerò a bussare contro quell'elegante porta di vetro.
E verrò a prendermeli. Perché sono 15, li avanzo, sono miei.
E devo mandarli in fumo.

Lungo la calle


Ciancia e ciancia, il vecchio,
di politici bassi
di statura e carati.

Sulla strada, vuota
alma e bocca, e conviene,
ch’è un Paese salato,

dire ancora a lungo,
di quel metro già andato
dietro pallide impronte

di chi va, distratto,
da politici bassi
di statura e carati.

mercoledì 4 gennaio 2012

Parole alle nove

«Posso darti un bacino?»
«No, mamma. Sciono gande»
«Ma anche i bambini grandi si prendono i bacini!»
«No, mamma.»
«Dai, uno piccolissimo, sulla fronte...»
«No, mamma.»
«E sul naso? Minuscolo, promesso!»
«Babene. Sciul naso.»

I miei capelli sono lunghi. Troppo, oltre la sbarra del lettino. Il naso ci finisce in mezzo. La bocca impertinente si accartoccia. Le unghie, tagliate di fresco, sedano il prurito. 
Ma - aahhh! - sorride.

«Buonanotte, mamma.»
«Buonanotte Topoamoredellamamma. E buonanotte orsetto, buonanotte letto, buonanotte luce, buonanotte libri, buonanotte dischi, buonanotte cassette, buonanotte stereo, buonanotte piastrelle, buonanotte scarpe,  buonanotte tende... »
Scendo le scale, un gradino già buio per volta. Fingo di chiudere a chiave la porta, “così restano fuori il lupo, gli uomini col pelo, quello con gli occhi nelle mani, il leone e i criceti”.
«Crunk-crunk-crunk», bello stentoreo, ché non abbia dubbi.
E buonanotte stelle, 
buonanotte luna dietro i tetti, 
buonanotte notte.

martedì 3 gennaio 2012

Andrej Tarkovskij - Stalker - 1979 - 03 - Io cosa voglio.

Il mio regno per un tubo


Camminare a Venezia, sotto una fitta pioggerella invernale, sembra un gesto privo di senso. Specie il due di gennaio, quando quasi tutte le serrande dei negozi sono chiuse come noci. Specie trascinando un pargolo - incredibilmente pigro - di nemmeno tre anni, per dare la caccia a un tubo di scarico per il lavandino zoppo.
Il suo perché, invece, ce l’ha. Le finestre, carte dorate appese ai palazzi, nascondono a malapena silhouette operose. Un gocciolio brioso danza dentro alle grondaie, suonando imprevedibili motivetti free-jazz. Il Colleoni, fradicio e lustro, se ne resta fiero a cavallo. I leoni - ma quanti ce ne sono? - paiono in agguato, pronti al lento, ferino avvicinamento di prede invisibili. 
C’è un arredo-bagno aperto. Troviamo quello che andavamo cercando.
Non è affatto vero che camminare a Venezia, sotto una fitta pioggerella invernale, non serve a un tubo.

lunedì 2 gennaio 2012

Ode a Roby Facchinetti


«Parlaci-di-te.»
Ambè, una cosa da niente.
Sono una mille-foglie farcita di tutto quello che, ad altri, pare strano. Per lo meno così dice la nonnetta che mi ferma, puntuale come lo scampanio di Don Fastidio, davanti alla farmacia se, per esempio, mi sogno di mettere i jeans del liceo, quelli strappati, da squinzia di ritorno.
Sono una donna targata 1976, figlia del terremoto, laureata all’Accademia di Belle Arti di Venezia. Posto magnifico ove t’insegnano, tra le altre cose, che la curiosità uccide solo gatti degli anni ‘80.
Sono una ex-segretaria di redazione. Ex, causa evidente e improrogabile stato interessante protrattosi (vocazione elefantesca) sino a oggi - mio figlio ha due anni e mezzo - e smilzo Co-co-pro non-rinnovato.
Faccio la radio. Ah-ah! Davvero comici. No, niente malta e mattoni e barchetta di carta sul cranio. Presto l’ugola alle onde medie, così, a tempo perso e no, non mi pagano: lavoro per la Sòra Gloria, che da tempo immemore si arricchisce alla faccia mia.
I Diggèi hanno smesso presto di chiamarmi “la stagista”, per fortuna. Si sono accontentati del mio nome.
Ah, a proposito: mi chiamo Alessandra. Per colpa dei Pooh e dell’omonimo, nefasto album del ‘72 della band. A Roby Facchinetti gli orecchi devono essere fischiati assai mentre la sottoscritta stava china, sul quaderno della prima elementare, a fare un’infinità di asole e trattini in corsivo. La mia compagna di banco si chiamava Paola: 5 lettere facili facili e penna giù. Li morté.
Bramate saperlo, s’intuisce: sì, li amo gli animali, come tutti gli imbecilli dall’occhio lustro che lo scrivono nelle auto-presentazioni, ma purché abbiano non più di quattro zampe. Il resto è roba croccante fuori e molle dentro, non ci può essere dialogo.
Fui una cantante, ora più da vasca da bagno che da piano-bar.
Leggo e scrivo da che ho memoria e una vaga coscienza di me. Scrivo testi di canzoni, poesie, racconti, diari e una quantità indecente di liste della spesa. Scrivo perché mi va, niente di più, niente di meno. Niente strazi, vizi e lazi, niente vesti da stracciare e necessità impellenti più dell’aria. Pure un quasi-romanzo (già che c’ero...), che non sta dove dovrebbe per antonomasia, per mancanza di adeguato comodino con cassetto.
Che altro? Tre nonni siculi, una padovana. I miei sono nati in Libia; io a Vicenza, città in cui ho vissuto per 4 o 5 giorni prima di affacciarmi sulla laguna.
I vicentini ridevano del mio accento veneziano. I veneziani di quello vicentino. Gli zii a Siracusa di quello del nord; i miei amici, quando tornavo dalle vacanze, di quello del sud. Un coacervo di gioiosi umoristi, insomma.
Ho studiato dizione. Ora, se m’impegno, nessuno capisce da dove io venga e, a me, va bene così.

Ah! Ho saputo che la vostra divisa è arancione: toh! Proprio il colore che più mi dona. Me lo dicono tutti! Ci credereste? Accattatevimi... sì, be', quella roba lì.