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lunedì 26 marzo 2012

Bruchi di marzo



La riva da percorrere è inondata da un sole sfacciato. Ne calpesto il selciato mentre vado da qui all’asilo. Ve lo dico subito, risparmiate l’ironia: vado a prendere mio figlio; io, dal tunnel (quello di cemento armato, con l’arcobaleno di vernice anti-pioggia), sono uscita oltre trent’anni fa. 
È inesorabilmente marzo. Me ne accorgo perché si compie, puntuale, un rito conosciuto. Con la primavera i bruchi abbandonano l’abito bolso e sfidano il cielo. 
Sono uscita prima delle tre e mezza, oggi. I tacchi, bassi, sonori e comodi, borbottavano il loro tlock-tlock in un silenzio rotondo, profumato, brillante. Dal muro, si è staccata la prima: ali frastagliate orlate di nero, di un arancione carico appena ammorbidito da radi pois scuri. È sbucata da dietro la schiena volando alla mia sinistra, mi ha tagliato la strada, si è appoggiata di nuovo sulle pareti esterne del palazzo alla mia destra. Qualche metro più avanti, ecco la seconda. Uguale all’altra. Stessi colori, stessa grazia, stesso schema danzante. Quando la linea delle abitazioni si è interrotta, lasciando spazio all’arioso slargo prima del solito ponte, la coppia volante ha cambiato strategia: un perfetto otto (o sarà stato un fiato d’infinito?), con il mio metro e settanta d’ossa prima in questo cerchio, poi in quello, poi in questo, poi in quello... roba da far impallidire persino i cinguettanti pennuti di Biancaneve.
Se riuscissi a concentrarmi sulle splendide ali, escludendo dalla mente il fatto che siano appiccicate a orribili, mostruosi, bavosi insetti, quelle due farfalle mi tornerebbero un sacco simpatiche. E magari, invece che polverizzare il record dei 1500 metri piani in fuga dal raid, potrei addirittura improvvisare un soave canto disneyano, alla faccia di quella sciacquetta, principessa animalista dei miei stivali. 

venerdì 16 marzo 2012

Monti e l'Abbiccì


Il sobrio Monti, al tavolo con il terzetto Alfano, Bersani, Casini, ha qualcosa di cartoonistico. Non so perché, ma mi ricordano le Giovani (si fa per dire) Marmotte al falò del Gran Mogol (no, non il paroliere di Battisti). Chiacchierando per cinque ore, pare abbiano raggiunto l’accordo su articolo 18 e giustizia, inclusa la responsabilità civile dei giudici. Fumata nera (chissenefrega, tanto era notte e non s’è vista) sulla Rai e sui temi relativi alla crescita economica.
Un riassuntino? Ai lavoratori tocca digerire il modello tedesco: “Mannò, non ti sto licenziando perché ti discrimino, è che tu manchi di disciplina e che io nun c’ho i soldi”. Ah! La causa durerà pochissimo, ché mica si può perdere tutto ‘sto tempo a tirare pedate a ignobili sederi fasciati da tute blu. 
Poi? Fornero - che, senza inopportuni articoli, passava di là - accelera sulla riforma sociale: basta con i millemila co-co-qualcosa. Su precari e disoccupati pioveranno “paccate” di contratti riuniti sotto un’unica egida: “F&T”, meglio noto come Firma&Taci, che fuori c’è la fila, e se non vai avanti col Cristo, la processione s’ingruma. Uh! Sei donna e, per di più, gggiovane? Fortunella! Ti offriamo un impiego con i contro-fiocchi! Come? Il bambino ti è rimasto fuori dalle liste dell’asilo? E vabbe’, come non detto... mica possiamo far miracoli!
Che altro? Ah già, Celo-manca, ché si chiamerà Giustizia per qualcosa. Ad Angelino va la figurina delle intercettazioni telefoniche (gli piace collezionare figurine, che ci volete fare?). A Bersani (pure lui, non scherza) quella dell’anticorruzione (botte ai privati, alle cricche e ai furbetti in doppiopetto, che pagheranno un po’ di più quando chiedono o accettano il pizzo. Per le giarrettiere ancora non si sa nulla).
Alla faccia dei leghisti, la responsabilità civile dei giudici dovrà essere limata e rimessa sulla bilancia; strizzando l’occhio alla moda, infine, per le toghe saranno valutate nuove nuances di rosso (gridare alla Toga Vermiglio, ammettiamolo, su!, fa tutto un altro effetto).
E la Rai? Non se ne esce. B la vuole pubblica. A è affezionato a Gasparri. Never ending story senza fortunadrago.

Ma, Lubrano docet, la domanda sorge spontanea: che diamine ci faceva, lì, Casini? Ehm, scattava foto da postare su twitter, augurandosi che questa esperienza di governo superi indenne il 2013. D’altronde, è sempre dall’ABC che si comincia, no?
Noooooooo!

giovedì 8 marzo 2012

Ottomarzo


L’azienda per cui lavoro preferisce che non si facciano straordinari, ché non ama pagare più di quanto dovuto. Allestisce gioiosi corsi di marketing spinto per i ragazzi dei reparti (il nuovo grido di battaglia è “Vendere! Vendere! Vendere!”), richiede una divisa pulita e stirata e trentadue denti lindi, infilati in un sorriso smagliante; più bianchi e affilati di qualsiasi testimonial da dentifricio white-qualcosa. Però, ieri, ha donato a ciascuna dipendente femmina il mazzolino di mimosa d’ordinanza. Evviva.
Ho ricevuto altri fiori anche oggi. Sempre i medesimi tondi bioccoli gialli, da parte di un’amica.
L’otto marzo è l’otto marzo. È utile, come qualsiasi cosa aiuti a mantenere sveglia la memoria. Non mi dispiacciono gli omaggi floreali, né l’insolita gentilezza dei bipedi di sesso maschile. Certo, un po’ affettata, leziosa, vestita dell’immancabile ghigno sornione, che resta appeso alle labbra per sottolinearne la caducità. Cavalieri a tempo determinato, insomma, perfettamente coerenti con il periodo storico, la crisi, i contratti semestrali rinnovati (e mica è detto!) all’ultimo secondo.
Non amo le disparità. La mancanza di rispetto mi atterisce a trecentosessanta gradi; le questioni di genere, al massimo, aggiungono ulteriore abbattimento. “La donna è tale tutto l’anno, non solo oggi!”. Et volià, la regoletta d’oro per l’imbottigliamento dell’acqua calda, sentenziata dalla solita femminista della domenica (o del giovedì, tanto è uguale). Ripeterlo ogni otto marzo vi sembra necessario? Avete ottenuto strabilianti risultati, sinora? 
Meritiamoci la stima degli altri esseri umani, senza troppe recriminazioni vuote, senza slogan da spot pubblicitario, senza sputare - altere e toste da paura - su quattro poveri fiori. Sono vivaci, sferici e soffici e, a me, stanno simpatici.

Oggi mi tocca la ricostruzione di un molare. Per ricordare la morte di decine di lavoratrici, in fondo, anche il trapano può essere catartico. 
Spero solo che il dentista non si vesta di giallo.

lunedì 5 marzo 2012

Voglia di ramazza



Ho sempre detestato i cani di piccola taglia, specie se ringhiosi e convinti, intimamente, di essere dei Dobermann. Non a caso, in tempi non sospetti decisi che, se mai avessi preso con me un “fedele amico dell’uomo”, esso sarebbe dovuto essere, in tutto e per tutto, cinomorfo. Insomma: un cane a forma di cane. Almeno una dozzina di chili, orecchi flosci quanto basta, muso non piallato da madre natura, coda intera, zampe snelle e falcata fiera. Ah! e nero, possibilmente. Al canile incontrai una cagnetta perfetta.  Fu amore (reciproco) a prima vista. Lasciata sufficientemente libera dal custode, mi saltò in braccio e non mi permise di dire altro che “Be’, credo di essere stata adottata!”. Zena è la regina cinomorfa.
Da sabato scorso (e così sarà sino a mercoledì), la nostra famiglia è ammorbata dal dog-sitting forzato. Un’amica è a spasso per l’Italia e - accidenti! - noi siamo gli unici che, ancora, accettano di tenere in casa il suo nefasto Coso pulcioso. Un inutile affarino impettito di cinque chili, color miele rancido, che ulula come un lupo delle steppe, orina contro ogni spigolo - più o meno vivo - di divani, stendibiancheria, stipiti, sedie e via ammobiliando e, se costretto a non fare quel che gli passa per la testa, pronto a estrudere la demoniaca mandibola e azzannare l’azzannabile. Mi prudono le mani. Nemmeno la peggiore psoriasi potrebbe farle fremere altrettanto. Ho una gigantesca, incredibile, insopprimibile voglia di prendere quel suo minuscolo deretano (sempre ben in mostra, ché la codina ridicola la tiene ritta come un’antenna) a scopettate. Vorrei ramazzargli il didietro fino a spazzarlo fuori dall’uscio, in giardino. Giorno e notte. Fuori, maligna bestiaccia! Al freddo, microbo peloso, così vediamo quanto dura quell’espressione strafottente intorno ai dentini aguzzi e irranciditi. Ti senti lupo? E allora esci, e goditi la distesa di altissima erba matta che che infesta l’orto, abitata da gatti grossi come bufali. E ti va ancora di lusso, ché l’autostrada - Uh, che disdetta! - è troppo distante da casa mia, e la scopa mi si consumerebbe tutta.

giovedì 1 marzo 2012

Ciao, Lucio


Avevo una decina d’anni. Il giorno più antipatico della settimana, il primo, si concludeva sempre nel medesimo modo: l’ultima scarpetta nel piatto, “Dài, Ale, che domani hai la scuola”, e una magnifica sigla. Pam-Pa-(un)-Parapapà-dibedebedeb-dubuduà!Pam-Pa-(un)-Parapapà-dibedebedeb-dubuduà!(chitarra)... La tele era accesa su Rai Uno; il gabbiano di pellicola bianca - ali bucherellate e curve sinuose - svolazzava beatamente sul logo delle maggiori case di produzione cinematografica, in un arcobaleno di raggi cangianti su sfondo nero. Stava per cominciare “LunedìFilm”, appuntamento imperdibile per godersi il capolavoro di qualche regista. È proprio da quella sigla, Lunedì Cinema che, assai prima di frequentare un corso di musica, ho imparato cosa fosse lo scat. L’avevano scritta gli Stadio. La cantava Lucio Dalla. Una voce incredibile, capace di farsi armonia, strumento a fiato, ritmo, controtempo. Miele struggente in Caruso (il cognome di nonna!), acume sonoro tra una boccata e l’altra di una Marlboro, nei panni di un angelo polemico (solare compagnia che usciva dall’autoradio di mio padre, negli infiniti viaggi verso sud), lama ironica e sottile di un Disperato Erotico Stomp, mentre io cercavo di capire di che diamine parlasse, quella canzone...
Lucio se n’è andato, tre giorni prima di soffiare forte sulle sessantanove candeline già pronte sulla torta. 
E io me ne resto qui, a casa.
Sola e scema, per qualche ora. A piangere. 
Perché non so smettere di pensare al giorno in cui il mio uomo, limpido e dolce, mi cantò Cara e io, farfalla senza muro, ebbi voglia di gelato.

Buon volo, caro Lucio.