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domenica 26 agosto 2012

Cambio. Di stagione. Forse.




Il sole, qui fuori, non può dirsi pallido. È proprio sbiadito, sciacquato nel latte o reduce, chi lo sa?, da un tuffo nel grigio-lavato che resta dentro la ciotola per gli acquerelli. Il vento, aspro e bizzoso, spira da Nordest, ma non è ancora bora. Preme gli scuri contro i cardini cigolanti, fa gracchiare l’esile stendino sull’erba, s’infila tra le foglie di ogni albero frondoso in un sibilo gonfio, per annunciare l’arrivo del nembo. A Sud, il cielo azzurro si svena in smagliature mobili, glauche, stracciate.
Stamattina è piovuto. Un temporale, niente di che. Ma quando arriva a fine agosto, i giochi sono fatti. Tocca ricacciare le infradito, mestamente, in una scatola e sfilare dall’armadio una giacca per la sera.

Domani cambierà qualcosa. 
Nel magazzino di un centro commerciale, la merce viene allocata. Non collocata, cioè situata; né allogata, pur restando il luogo, la radice. Ogni oggetto trova un posto per sé, stipato insieme a molti altri.
Mi sento un collo. E non quella porzione di corpo che sta tra scapole e capo, ma uno scatolone, con la sua brava etichetta, in equilibrio sulle unghie metalliche di un muletto. Resto in attesa che chi di dovere scelga il cantuccio più adatto; alle mie misure, al mio peso, alle fragilità che custodisco, ai miei spigoli.
Sono una strenna color avana dalla destinazione incerta. Con il fiato sospeso.
E li odio - oh, eccome, se li odio! - gli istanti prima della tempesta.

giovedì 23 agosto 2012

Che ci vuole?




I medici salvano la vita alla gente, quindi è giusto siano pagati profumatamente. 
Be’, andiamoci piano. Ci sono anche medici che le stroncano, le vite; per distrazione, banali errori, stanchezza o Saturno contro. Eppure nessuno si sognerebbe di dire a un chirurgo: “Sì, ci interessa il tuo lavoro. Operi con cura, rattoppi adeguatamente, ma sfortunatamente non possiamo pagarti. Se ti va bene lo stesso, sei dei nostri, altrimenti va’ pure, tanto c’è la coda, qui fuori, per questo posto”. 
E provate a chiamare un idraulico per una perdita al lavandino, magari di sabato, chiarendo che per risolvere il problema non riceverà retribuzione alcuna. Ecco, nemmeno nel castello di Hogwarts, giusto?!
E allora perché i musicisti che vi allietano l’aperitivo, per due ore di concerto, dovrebbero accontentarsi di una birra e un panino scarsamente imbottito? Perché all’artista che progetta il recupero di una fabbrica abbandonata tocca null’altro che la proverbiale pacca sulla spalla? Perché un giovane regista è costretto a realizzare film a costo zero? E perché - muoiano gli editori e tutti i filistei! - chi scrive deve sentirsi onorato di leggere la propria firma in calce all’articolo che ha sfornato (preparandosi sull’argomento, impiegando tempo, energie, concentrazione) e chissenefrega della solita voragine nel portafogli? Al mio fruttivendolo, dell’onore, importa assai poco. Se non pago il chilo di patate o le quattro melanzane, mi fa un melone così. 
E vabbe’, quanto la fai lunga! In fondo siamo tutti un po’ creativi! Pure io riesco a fare un taglio in una tela, come Coso, Massìquellolì! Che ci vuole?
Ci vuole la capacità di vedere ciò che, ad altri, non appare. Ci vuole passione per il mondo e sfrontatezza. Ci vuole il coraggio di superare i dogmi della propria epoca.
Ma che parlo a fare? Tanto è un fatto: a bocce ferme, son tutti Fontana.


mercoledì 8 agosto 2012

Dopocena




D’estate si usava l’Autan, non ancora in versione a spruzzo, senza alcol, per pelli sensibili o al gelsomino. Era un cilindretto pesante, con la rotella sul fondo che permetteva a un monoblocco giallo dall’odore inconfondibile di fare capolino ed entrare in azione. Ad applicazione effettuata, la pelle - nessun centimetro escluso - rimaneva unta e lucente per ore. Ma funzionava! ché le zanzare erano solo zanzare, mica tigri, leopardi o coccodrilli. 
Il fresco della sera, l’inebriante aroma delle costine alla Festa dell’Unità, la partitella scapoli-ammogliati di papà a sole tramontato, il gelato dopo una giornata di mare, si potevano godere senza incappare in coatte donazioni di sangue ai soliti elicotteri ronzanti.
Quando i miei esaurivano le ferie, trascorrevo un paio di settimane in trasferta. Mi piaceva stare a casa della nonna. Potevo pattinare con i calzini sul marmo scuro della sala da pranzo, giocare con centinaia di elastici raccolti in un cassetto dedicato, colorare con i pennarelli a pancia in giù sul parquet, contare le piastrelle rosa del bagno, ascoltare Superclassifica Show con mia zia, mentre la testa stroboscopica di quel tizio con cuffie e occhiali si agitava davanti al microfono.
Dopo cena nonna usciva sul balcone, pronta al rito serale; io, paperella implume, la seguivo con un entusiasmo e una fiducia assoluti, roba da fare invidia a Konrad. Lei passava le mani sulle foglie nuove di prezzemolo, menta e basilico, controllava il vigore dei garofani, ammucchiava in un angolo i petali dei gerani - ché bisogna stare attenti, sai: macchiano! - per poi allungare la mano fino alla parete tra le due porte-finestre, a caccia del trono. Con delicatezza, trascinava la poltrona pieghevole al centro del terrazzino. Dieci centimetri dal muro, altrettanti dalla ringhiera grigia. Infine, la magia: ben comoda sulla sedia imbottita, aperta e funzionale, nonna appoggiava i palmi delle mani sui braccioli di plastica e rat-ta-ta-tà!, li faceva scorrere lungo il binario dentellato fino a raggiungere la posizione ideale, con lo schienale reclinato e il poggia-gambe sollevato da terra di quasi mezzo metro. Mi prendeva in braccio e il mio naso andava in festa. Gli odori piantati nei vasi, il gelsomino rampicante, le rose e i peperoncini di nonno Gianni, il glicine dell’appartamento accanto, mischiavano la propria scia con il talco Felce Azzurra nevicato con grazia sul collo della nonna e, a me, pareva di stare in paradiso. 
Era l’ora della calma, dell’ozio saggio, del respiro profondo in un tripudio di profumi. Abbandonata sul grembiule a fiori di nonna, chiudevo gli occhi e ascoltavo le cicale. Nulla avrebbe potuto disturbare quella quiete. 
In ogni lieve brezza gonfia di silenzio, persino l’Autan, ancora aggrappato ai peli delle braccia e a quelli delle nari, sembrava avere il suo perché.