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giovedì 27 settembre 2012

Il lavoro del cavolo




Il periodo non aiuta. Un tempo esiziale, ragnatela infida appesa tra le foglie brunastre insultate dal vento. E, insieme, contingenza funesta nelle piazze, disertate dai consumatori, consumate dalle suole lise dei precari, dei cassaintegrati, dei disoccupati. Starsene appollaiati sul ciglio di questo abisso è un privilegio. E va da sé: qualsiasi lamento, sputato o sommesso, pare una bestemmia. Io ce l’ho, un lavoro. Un impiego che - addirittura! - non somiglia nemmeno più a un latticino a lunga conservazione: non scade. Giubilo e gioia a profusione, dunque! Eh, più-meno-che-più.
Il guaio è che dovrei avere la mano ferma. Maneggiare la bomba con cura, salvaguardare gli astanti invitandoli ad allontanarsi lentamente, far brillare l’ordigno senza spargimenti di sangue. O di parole riottose. O d’indignazione viscerale.
Con quale coraggio potrei dire a un mancato-pensionato del ‘52 che la permanenza può somigliare a un cappio? O a un neo-laureato con, in tasca, un biglietto per Berlino, che le garanzie, le certezze, la routine, rischiano di trasformarsi in coazione a ripetere?
Non ce l’ho abbastanza di bronzo, la faccia. Nonostante io abbia un odore diverso, una differente fame di luce, una forma tutt’altro che ovoidale: una spirale infinita, frattale, aurea.
Nonostante io sia un cavolfiore, ecco. 
Malamente piantato in un campo di patate.
Stinto. Accerchiato. 
In preda a una nausea furibonda.