Lasciarsi strozzare dal magone, far prevalere l’indignazione - impalpabile, bianca, stoica quanto lo zucchero a velo sulla focaccia bollente, affogare un gesto in un magma collettivo sino a renderlo pappa per palati molli, è facile. Comprensibile, magari; ma vacuo. Sciocco. Roba per gente pigra.
Noi umani, animali dotati - per quanto spesso refrattari - di pensiero, abbiamo comunque bisogno della forza. Di quella linfa vitale che ci permette di compiere ogni atto, ogni movimento. Altrimenti saremmo pietre. Sassi lisci o bitorzoluti, minerali inerti. Il guaio è che la forza può farsi eccessiva. E divenire impeto. Follia; poco conta se opaca o lucida. O violenza. Ché il vigore sa lievitare in pre-potenza. Un dominio inarrestabile fatto di nocche, lame, mutilazioni, fiamme, proiettili. E bicchieri, sempre gli stessi, rotti mille volte, mai sepolti.
Anche le donne sono violente. Alcune sanno scegliere parole capaci di annientare, torturare, annichilire. E mica tutte pesano cinquanta chili, o non raggiungono il metro e sessanta! Ci sono armadi-femmina a otto ante - in grado di abbattere un maschio come nemmeno una mandria di bufali, che non si limitano alle aggressioni freudiane.
Di solito, però, capita il contrario. È lì, il problema. Non nella questione “di genere”, ma in quel necrotico, asessuato “solito”. Ci siamo ridotti a credere che l’imposizione, l’offesa, la ferita, siano pallide tracce della consuetudine. Un’usanza becera, truce. Ma-tanto-poi-passa.
Fino alla prossima volta.
Perché gli uomini che uccidono le donne sono maschi, certo. Ma anche individui. Persino figli. Di padri con la testa quadrata, forse. E di madri - donne! - troppo impegnate a proteggere giardini di ortiche.
Il problema è il "solito". Perché anche noi siamo i soliti.
E le solite.