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domenica 21 ottobre 2012

Sassi




Lasciarsi strozzare dal magone, far prevalere l’indignazione - impalpabile, bianca, stoica quanto lo zucchero a velo sulla focaccia bollente, affogare un gesto in un magma collettivo sino a renderlo pappa per palati molli, è facile. Comprensibile, magari; ma vacuo. Sciocco. Roba per gente pigra.
Noi umani, animali dotati - per quanto spesso refrattari - di pensiero, abbiamo comunque bisogno della forza. Di quella linfa vitale che ci permette di compiere ogni atto, ogni movimento. Altrimenti saremmo pietre. Sassi lisci o bitorzoluti, minerali inerti. Il guaio è che la forza può farsi eccessiva. E divenire impeto. Follia; poco conta se opaca o lucida. O violenza. Ché il vigore sa lievitare in pre-potenza. Un dominio inarrestabile fatto di nocche, lame, mutilazioni, fiamme, proiettili. E bicchieri, sempre gli stessi, rotti mille volte, mai sepolti.

Anche le donne sono violente. Alcune sanno scegliere parole capaci di annientare, torturare, annichilire. E mica tutte pesano cinquanta chili, o non raggiungono il metro e sessanta! Ci sono armadi-femmina a otto ante - in grado di abbattere un maschio come nemmeno una mandria di bufali, che non si limitano alle aggressioni freudiane.
Di solito, però, capita il contrario. È lì, il problema. Non nella questione “di genere”, ma in quel necrotico, asessuato “solito”. Ci siamo ridotti a credere che l’imposizione, l’offesa, la ferita, siano pallide tracce della consuetudine. Un’usanza becera, truce. Ma-tanto-poi-passa.
Fino alla prossima volta. 
Perché gli uomini che uccidono le donne sono maschi, certo. Ma anche individui. Persino figli. Di padri con la testa quadrata, forse. E di madri - donne! - troppo impegnate a proteggere giardini di ortiche. 
Il problema è il "solito". Perché anche noi siamo i soliti. 
E le solite.

venerdì 12 ottobre 2012

Gomma



Ecco l’indignazione. La solita, maleodorante muffa di chi simula cecità; che, di quella finzione, pare aver fatto un mestiere. Ecco le voci straziate e gli indici rigidi, puntati contro un poliziotto dai modi bruschi, indecenti. Ecco il caso giornalistico, carogna fumante sulla quale adorano gettarsi le iene della carta stampata - con l’editoriale sentenzioso in tasca, gli zoom invadenti, i canini affilati e coperti di bava vischiosa - acquolina mefitica a contar gli incassi. 
Ecco il folletto dell’oblio che, nel pieno rispetto delle consegne ha sfilato senno e memoria, per l’ennesima volta, dalla testa della gente.

Di figli dalle braccia di gomma è pieno il mondo. Arti elastici, tirati sino a smagliarne la sostanza. È pieno il mondo di ex mogli ed ex mariti che, pur di risultare vincitori, non esiterebbero a strapparle dal tronco, quelle amabili braccia. Perché lo strazio è invisibile, così come gli occhi sbarrati del testimone. Perché da tempo, per quel trofeo indivisibile, è stato fatto spazio sul ripiano più alto delle recriminazioni. Finché i denti del figlio, il volto bocconi contro il suolo, non affondano nella terra. Perché il gioco è irrefrenabile; va portato sino in fondo. Persino oltre il filo bianco che, ferale, si leva dalla candela spenta, muta come non mai. 
O come sempre.
Di figli dalla braccia di gomma è pieno il mondo. Oppure no. 
Ché le case della gente, fatte di mattoni, ipocriti da rouge e noir, silenzi solidi e dissimulazioni, si sa: neppure il lupo più abile, grosso e irsuto, riesce a soffiarle via.

giovedì 4 ottobre 2012

Autumn leaves




L’altro ieri ho comprato i primi cachi. Sguardo al calendario: ottobre. 
È che i ritmi frenetici, le telefonate ferali - raccolte e mancate, i temporali nostalgici e le maniche corte mi avevano distratto. Per carità, l’orecchio già da un po’ poteva dirsi orfano di risate cristalline tutte alito e anguria, del tintinnar di palette e secchielli, di cocchi strillati e brrrip-brrrop di braccioli sdrucciolevoli. Ma me ne stavo lì, ad attraversare le giornate con il foglio dei turni appeso al frigo, i soliti pantaloni addosso, la lista della spesa nella tasca esterna della borsa.
Poi ho riposto i sandali e le scarpe di corda, in favore di calzature chiuse e gommate; ho sfilato dall’armadio la giacca di pelle; ho guardato il cielo abbassarsi, scuro e stellato dall’ora del tè. E oh! Quelle maledette foglie! Rosso, marrone, giallo, arancione... Avrei dovuto capire, no?!
Niente. Non pensavo a niente. Testa svaporata e quotidianità da allestire.
Stamane, lo schiaffo.
“Fa’ colazione!-scappa pipì?-dài, co’sti denti!-lo zainetto è sulla sedia-papà ha già i piedi nelle scarpe...-lo so che c’hai sonno-infila il giubbino!-andiamo con il monopattino?-presto, ch’è tardi!”. Poi, la porta d’ingresso: scatto della serratura, lamento dei cardini, swosh del para-spifferi, luce.
Luce bianca. Diffusa. Lattiginosa. Umida.
«Mamma! Perché c’è la nebbia, stamattina?»
«Amore, dobbiamo farcene una ragione, temo. Siamo in autunno!»
«E perché?»
«Perché tutte le cose finiscono, prima o poi...»
«Come la marmellata?»
«Esatto. Ehi! Corri più vicino al muro, ché non ho voglia di venire a pescarti dal canale!»
«Ma tanto è bassa!»
È vero. Lo scirocco non si è ancora fatto vivo. Salvi dall’acqua alta! Per ora, almeno.
«Nano! Vi-ci-no al mu-ro! Insomma, come te lo devo dire?!»
«In turco, mamma?»

Eh. Mi sa che devo rimettere in moto il cervello. E starci attenta - mannaggia a me! - con ‘sto vizio delle frasi fatte.