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mercoledì 25 dicembre 2013

Dal Vangelo secondo Topodimamma





«Santoooo, santoooo...»
«Eh?! Cosa stai cantando, Topo?»
«Una canzone che ci hanno detto all’asilo, quando ci hanno raccontato come è nato Gesù!»
«Ah... la racconti anche a me, questa storia?»
«Sì, mamma! Allora: c’era uno che stava facendo una sedia...»
«Ehm... Giuseppe?»
«Sì, brava! Si chiamava così!»
«Ok. E?»
«E poi c’era una sua amica... La Maria.»
«E cosa è successo?»
«Giuseppe e La Maria si sono innamorati e poi si sono sposati.»
«Sì, ti seguo...»
«E poi è arrivato uno - ma non Giuseppe, un altro - che è andato alla finestra, e ha detto alla Maria che aveva un bambino nella pancia.»
«L’arcangelo Gabriele?»
«Sì, quello, Gabriele! Ma la conosci anche tu, allora!»
«Più o meno; è che non me la ricordo tanto bene. Ma dimmi: cosa hanno fatto La Maria con il bambino in pancia e Giuseppe?»
«Dovevano far nascere Gesù, ma giravano e giravano e niente, i paesani non li volevano.»
«Uh, poverini! Che puzzoni, ‘sti paesani! E quindi, dove sono andati?»
«Alla fine hanno trovato rifugio in una... mmmh... una fattoria!»
«La mangiatoia?!»
«Eh, proprio quella! E poi Gesù è nato.»
«E lo hanno messo in una culla?»
«Sì, Giuseppe ha preso della paglia pulita, ma proprio pulita e poi ci ha messo sopra Gesù appena nato.»
«E il bue e l’asinello lo tenevano al caldo con l’alito?»
«Macché! Era la paglia pulita, a tenerlo al caldo!»
«E qualcuno è andato a trovarli?»
«Sì, il pastore. Ma è andato via subito, perché doveva correre dietro alle pecore.»

Non ho chiesto altro. Non si sa mai: il figlio di un’atea può sempre mettere l’oro nelle mani di Jake l’avventuriero, l’incenso in quelle del Grande Puffo e le lenticchie tra gli zamponi di Peppa Pig.

martedì 19 novembre 2013

In-sanità




Secondo piano, ambulatori di chirurgia. Una donna con i capelli sale e pepe appoggia la mano sulla spalla della figlia appena adolescente. «Chiediamo!» propone e la ragazza, silenziosissima, la segue sino a metà corridoio.
Bussa a una porta. Quella si apre e mostra la testa di un’infermiera, quasi le fosse stata mozzata dal collo.
«Scusi, mia figlia deve fare una visita pre-operatoria. Lascio nome e cognome a lei?»
«Se ha appuntamento, è già nella lista, signora. Accomodatevi pure nella sala d’aspetto qui accanto. Vi chiamiamo noi.»
Ottimo. Ho avuto le informazioni che mi servivano senza usurare le corde vocali. Seguo la Signora Salepepe e la Ragazzina Silente. Su una delle sedie c’è già un uomo calvo e con gli occhiali. Altri due posti sono occupati da un padre e un figlio adulto. Entrambi dotati di caviglia dal dondolìo facile. Il loro senso del ritmo fa traballare tutta la fila di seggioline, inclusa quella sulla quale, malauguratamente, ho posteggiato le mie terga. 
Avrei avuto appuntamento alle otto e dieci. Alle otto e mezza sono ancora alla mercè dei Dondolatori. Nel frattempo, entrano un signore brizzolato con il giornale sotto braccio, un giovanotto corpulento con il dito attaccato ai tasti del cellulare, un tizio sulla sessantina alto quanto un lampione, con lunghi capelli da capo Sioux raccolti in una coda di cavallo, un ometto tondo insaccato in una felpa verde smeraldo e una coppia di anziani. La vecchietta sembra una persona cordiale; il marito neanche un po’. Ha gli occhi iniettati di sangue e una smorfia arcigna appesa tra il naso e la sottile linea delle labbra. Magari ha quegli occhi perché deve farsi operare di cataratta - penso - quindi non è opportuno trarre conclusioni lombrosiane a caso.
Finalmente l’infermiera Decollata, recuperato il proprio tronco, si presenta nella sala d’aspetto e rapisce il Calvo Occhialuto. Pochi minuti dopo l’uomo esce dalla stanza della Decollata, saluta gli astanti, raccatta un berretto rosso dall’appendiabiti e se ne va.
Sono le otto e quaranta. Decollata torna a pesca nel nostro lago.
«Chi c’è, adesso?»
«Tóca a mi!», chiarisce l’Iniettato, a gomiti larghi. 
Mi viene un dubbio. Avevo sentito Salepepe ricevere una telefonata. Parlava in tedesco. Forse non conosce troppo bene, le italiche dinamiche...
«Un secondo!», esordisco, «Ma che ordine state seguendo?»
«Chi è arrivato, prima?» dice Decollata.
«No, un momento: quindi vige il Chi-prima-arriva-meglio-alloggia, o avete una lista con gli appuntamenti, in ordine di orario?»
Decollata è perplessa fin quasi allo smarrimento.
«Intendo: io, per esempio, sono stata convocata alle otto e dieci... Lei, signore?»
«Otto e venti. Questo mi hanno detto, per lo meno, quando mi hanno telefonato» replica Brizzolato Lettore.
«Io, otto e mezza» dicono, quasi all’unisono, Insaccato Verde e Lampione Sioux.
«Lei a che ora aveva appuntamento?» fa Decollata a Iniettato.
«Mi? Ae òto e quaranta. E xé e òto e tre quarti.»
«E lei, signora?» chiedo a Salepepe Tedesca.
«Veramente, avevamo appuntamento alle otto.»
«Bene,» chiudo io «allora tocca alla signora e alla signorina, poi a me, poi a questo signore qui e poi ai due delle otto e trenta. E Il ragazzo, laggiù?»
«Alle nove. Io aspetto.»
Iniettato mi odia. Aveva già un piede dentro la stanza di Decollata e, in un secondo, è stato retrocesso al sesto posto a causa mia. Salepepe, invece, mi sorride. Ragazzina Silente mi ringrazia, un secondo prima che sua madre chiosi «Per fortuna che c’è ancora qualcuno, qui, che...» e sparisca dietro la porta con l’infermiera.
La moglie di Iniettato capisce l’antifona e torna a sedersi nella sala d’attesa. Lui no. È stoico. Si piazza nel corridoio, ignorando cocciutamente i cartelli con su scritto “Transito barelle. Vietato ingombrare il passaggio”.
Io mi metto sulla porta, a due passi da lui. Penso che potrà essere anziano, operabile, prepotente e iniettato quanto gli pare, ma se vuole fregare il posto a me o a uno degli altri cinque prima di lui, dovrà passare sul mio cadavere.
Madre e figlia escono, ringraziandomi di nuovo. Iniettato si stacca dal muro, pronto a raggiungere la meta.
«Adesso, tocca a?» trilla Decollata.
«A me, eccomi.» rispondo, con un tono che non ammette repliche, il passo lungo e ben disteso, le spalle dritte come se, nel giaccone, avessi scordato una gruccia.
Iniettato borbotta. E borbotti pure, per quel che m’importa!
Decollata mi mostra un paio di fogli con le indicazioni per le prossime visite. Mi fa un prelievo del sangue, ritira il campione di urina. 
«Ok. Quindi adesso vado a fare l’elettrocardiogramma, poi, nel pomeriggio, torno per la visita con l’anestesista?»
«Sì, esatto, e...»
Si apre la porta. È un’altra infermiera, bassina, castana, con le guance rosse.
«Vuoi sapere l’ultima? Non posso andare in ferie!» strilla a Decollata.
«E perché?»
«Mi ha detto che, da domani, va così. Va così e basta, mi ha detto. Capito?! Così e basta!»
Guance Rosse s’infervora, gesticola, sbatte oggetti sconosciuti a destra e a manca. Decollata, solidale, annuisce e sgrana gli occhi  a cadenza regolare.
«Scusate...», dico io «devo fare altro, qui? Devo firmare qualcosa?»
«No, ha finito. Vada pure.» dice Decollata.
«Ah, mi scusi!»
«Prego?»
«Dopo di me, tocca al signore brizzolato, con il giornale sotto braccio.»
«Perfetto, grazie. Arrivederci.»
Recupero l’ombrello dalla sala d’aspetto, saluto vecchie conoscenze e nuovi arrivi, ignoro bellamente Iniettato e consorte e scendo a piano terra.
Ho, colpevolmente, ignorato dell’altro, ma non ne sono ancora consapevole.
All’ambulatorio di cardiologia, mi consegnano un tagliandino bianco con il numero 11. Prima di me c’è solo un tizio di una magrezza imbarazzante. Gli altri hanno biglietti di altri colori, quindi non fanno testo.
Passati cinque minuti, si apre la porta di colpo e, alla chetichella, entrano Iniettato e la moglie. Consegnano loro il 12 bianco e io, dopo un sacrosanto “Eccheccacchio, è ‘na persecuzione!”, me la rido sotto i baffi: entreranno, di nuovo, dopo di me.
Fatto l’esame, abbandono l’ambulatorio. E pace ai vivi, anche a quelli con il sangue negli occhi.
Con gli stivali di gomma ai piedi, raggiungo l’approdo. Il mio battello parte tra pochi minuti. 
Rientrata a casa, mi taglio due fette di formaggio e preparo un’insalata di pomodori. Appena mi siedo a tavola, squilla il telefono.
«La signora F.?»
«Sì, sono io. Con chi parlo?»
«È la chirurgia del civile... scusi, ma lei non è più tornata su, per l'anamnesi!»
«Eh? Ma se mi avete dato appuntamento alle 15.20?!»
«Ma quella visita è con l'anestesista! L'anamnesi la fa il chirurgo!»
«Buono a sapersi, ma non me l'avevate detto!»
«Sì che gliel'ho detto! È colpa sua!»
«Col..? Va be', magari non ci siamo capite.»
«Io gliel’ho detto!»
«Guardi, come le pare... e quindi, che posso fare adesso?»
«Deve tornare martedì prossimo, sulle nove e mezza- dieci.»
«COOOMEEE? Ma non posso vedere il chirurgo oggi visto che, nonostante l’acqua alta, il diluvio universale e l’ora di attesa già buttata stamattina, mi fate tornare lì?»
«No, il chirurgo c'è solo il martedì.»
«Ehm... e oggi, secondo lei, che giorno sarebbe?»
«Intendevo martedì mattina
«Non è che lei sia un po’ troppo ermetica?»
«Prego?»
«Niente, pensavo ad alta voce... Mi faccia solo capire una cosa: spostando l’anamnesi al prossimo martedì, anche l'intervento slitterà di una settimana, giusto?»
«È probabile.»
«Benissimo! Sono quasi due mesi, che vi corro dietro, lo sa? Il centro prenotazioni non prenota, il chirurgo sparisce, il centralino risponde - Embe’, da me cosa vuole sapere? - se lo si contatta per capire chi chiamare... ma non importa. Se dovessi avere altri problemi, tra oggi e il prossimo martedì, tornerò al pronto soccorso. Lì sono stati veloci, precisi e gentili. Certo, mi hanno detto - testuali parole - che ho un intestino orrendo, ma mica dipende da loro, no?! Me ne farò una ragione!»
«Guardi, non so cosa dirle,. È lei che...» 
«Grazie per avermi avvisato. Buona giornata, infermiera.»

L’interruzione dell’altra infermiera, dopo il prelievo, l’aveva distratta. E aveva distratto anche me. 
È convinta sul serio, di avermi detto del chirurgo. Può capitare, per carità. Però mi auguro comunque che Guance Rosse e Decollata non vedano ferie fino al 2042.

Fatta la visita con l’anestesista, con Il Piccolo a manina, ho fatto un raid a chirurgia. Ero a caccia del chirurgo. A un certo punto, credo di incrociarlo. Cerca di entrare nella stanza di Decollata! Non sono sicura al cento per cento, che sia lui. Ancora titubante, perdo l’attimo fuggente: il dottore mi scappa sotto al naso. Ma sono fortunata. Era andato a recuperare le chiavi della sala prelievi, quindi torna sul luogo del delitto. Mi decido, dunque:
«Scusi... lei è il dottor L.?»
«Sì, sono io.»
«Io sono quella che, stamane, non ha fatto l’anamnesi, per un disguido... potrei chiederle di farla adesso, invece che tornare qui la settimana prossima?»
«Gliela farei, se non avessi molte altre cose da fare, in questo momento.»
«Quindi... a martedì prossimo?»
«Yesss!»

Ha fatto pure il simpatico, ha fatto! Il simpatico anglofono, per giunta. 
Quasi quasi crepo dalle risate.
Be’, magari crepo e basta, chi lo sa? Sarebbe un bel gesto, per tutti gli Iniettati che ho incontrato sulla via.

martedì 5 novembre 2013

Appesi a un filo




L’azienda ci ha cambiato la divisa. Per il periodo invernale, non indosseremo più le vecchie camicie bianche -  refrattarie a qualsiasi ferro da stiro - provviste di colletti, polsini e ghirigori blu, ma nuove polo rosse a manica lunga, di qualche curioso tipo di cotone fabbricato, all’ombra di un dragone dagli occhi a mandorla, in Tantamalóra. È rimasto immutato il gilet di pile, straordinario catalizzatore di polvere, peluzzi ed elettricità. Invariati, a dirla tutta, sono anche il marchio (embe’!) e lo slogan, attualmente ricamato con del filo bianco. Filo che, già dopo il primo lavaggio a trenta gradi, pare brami virare al rosa confetto. Assemblaggi creativi, immagino.
Ma torniamo allo slogan. Esso è il grido di guerra, il motto piacione, la formuletta sintetica ideata per attirare l’attenzione, facile da riconoscere e memorizzare. Il nostro - che giace, intrecciato alla trama della polo, sul dorso di ogni maglia - è “Piacere di esserti utile”. Ce lo portiamo addosso sulla schiena, perché abbiamo una vocazione: essere presi alle spalle, di sorpresa, dal cliente smarrito. Smarrito e rompipalle - va chiarito - in questo contesto possono essere considerati sinonimi.
Neppure la presa vigliacca, però, riesce ad atterrirmi quanto la forma e il contenuto del messaggio. Dal punto di vista sintattico, questo slogan ricorda la leggerezza dei convenevoli, interiezioni polirematiche tipiche della lingua parlata. Mi spiego: cosa dite allo sconosciuto che vi sta presentando zia Tilde? Esatto, “Piacere di conoscerti”. La frase, in tal guisa, omette attore, azione e, già che ci siamo, un articolo: Io - ho - il (piacere di conoscerti). È un’aberrazione comunemente accettata e usata, nel lessico orale. Il filo bianco, però, mette la vittima dello shopping di fronte all’aberrazione dell’aberrazione, in un doppio salto mortale:
“Piacere di esserti utile (io ho il)” è un abominio sintattico, una deviazione forzata dalla strada maestra della lingua italiana. Non solo non appartiene ai convenevoli già noti (primo salto), ma viene cucito su una superficie piana e vivace quanto un faro anti-nebbia. Per iscritto, dunque (secondo salto). E scripta manent, avete presente?

Il nostro sindacalista, affrontando temi di tutt’altra entità, qualche giorno fa ci ha detto: «Il cliente non pensa che voi abbiate bisogno di bere, di mangiare, di andare al bagno. Non pensa che abbiate mal di testa, sonno, un’ernia al disco. Non pensa che abbiate una famiglia, una casa in cui tornare; i cavoli vostri, insomma. Per il cliente voi siete lì, ma non esistete. Lo sapete, no?»
Lo sappiamo. Non vogliamo crederci, ma lo sappiamo.
Ecco il motivo per cui odio quello slogan: perché, come recita il dizionario Treccani, “l’aberrare, il deviare da una norma o da un principio, da una legge morale o fisica, da un comportamento che si considera normale”, in un centro commerciale è il pane quotidiano. Nulla è normale. E qualsiasi legge morale, di certo, non vi trova dimora.
Quindi la indosserò, la polo cinese con il glauco motto, che magari si stira pure meglio della camicia. 
Ma sappiatelo:  ogni volta che, lungo la mia spina dorsale curva, leggerete quanto sia un piacere esservi utile io, a volume azzerato, aggiungerò, sistematicamente “Piacere un cazzo.”

domenica 14 luglio 2013

Orfana come un brutto bagarospo





Schifo di anno! Se n’è andato pure Accolla. Epporcocane, porco.
Mia madre ha sempre cianciato di parentele sicure, con il marchio Doc, ma non si è mai capito quale ramo della famiglia allungasse le propaggini verso di lui. Forse un secondo o terzo nipote dello zio Pino, cognato di nonna; o magari un cugino della nuora della sorella di Vattelappesca. Non importa. A me l’ipotesi, per quanto remota o evanescente, galvanizzava comunque. Appartenere - più o meno - allo stesso ceppo di una delle voci nazionali più poliedriche, multiformi, modellabili, faceva sperare di riuscire a entrare, in un qualche futuro stellato, nell’incantevole universo del doppiaggio. E d’accordo che siamo in Italia, ma mi riferisco alla genia (o, per lo meno, alla contiguità); non ai soliti, familiari favoritismi.
Non è perché detesto poche cose al mondo quanto guardare un film sottotitolato. Né perché, quando lo incontrai, mentre le mie corde vocali - reduci dai corsi di ortoepia e pronuncia - si strizzavano intorno al refrain per uno spot di articoli sportivi lui, oltre il vetro isolante piantò un “Ok” con il pollice a mezz’aria. Passava da quelle parti e non negò un mimo d’incoraggiamento all’attempata novellina chiusa nell’imbottitura dello studio.
Il fatto, semplicemente, è che Tonino era il migliore. 
Che il “Doh!” piagnucolato da Homer Simpson di fronte alla scatola vuota delle ciambelle, da oggi, suonerà alieno.
Che i suoi redazionali, piani e mai noiosi, si riconoscevano a un chilometro di distanza.
Che lasciamo perdere Tom Hanks, Kenneth Branagh, e il resto della compagnia recitante. Avete presente Eddie Murphy? Continuerà a sghignazzare, mostrando le sue infinite centinaia di denti in qualche dirigibile, digeribile, digitale americanata. 
Con la voce di un altro.

E io non so immaginare chi avrà in sé quel corposo bolo di gioia capace di avviare, nella mia lingua, l’esilarante contagio. 


lunedì 24 giugno 2013

Una che conta




Ne ho uno al polso. Un altro, quadrato e con la cornice metallica, frutto di una delle nostre puntatine da Ikea, è appeso alla parete della sala da pranzo, di fronte alle finestre. Ci sono quelli che occhieggiano dal cellulare e dalla base del cordless, digitali e minuscoli come il timer del portatile o del computer nello studio. Ci sono orologi ovunque, in questa casa.
Eppure, ogni volta, ci ricasco.
Mentre Don Fastidio, come al solito, tira la corda, la campana di San Donato tende la fune d’appoggio, che gracchia e s’allunga finché può, per poi cedere di schianto. Il tempo viene fatto regolarmente a fette e io non so resistere, ché l’enumerazione silenziosa sfila nella mia testa, senza briglie né ostacoli, anche quando la derelitta è concentrata altrove: Dàn-Uno, Dàn!-Due, Dàn!-Tre, Dàn!-Quattro, Dàn!-Cinque, Dàn!-Sei, Dàn!-Sette, Dàn!-Otto, Dàn!-Nove, Dàn!-Dieci, Dàn!-Undici, Dàn!-Dodici. 
Sospiro di canapa e poi silenzio.
Ah, fissazione maledetta! Quanto ti odio, a mezzogiorno!

Ci sono ore che contano, perché giusto in quegli istanti un’attesa epifania prende forma, scade il termine massimo per pagare una bolletta o per partecipare a un concorso. Ci sono ore che contano perché un figlio nasce in un istante preciso, né un minuto prima, né uno dopo. 

Mi do sui nervi. So che è una mania idiota, ma non so respingerla: io conto le ore; le ore che mi separano dalle prossime da contare. 
A tarda sera, quando la stanchezza prende il sopravvento, smetto. Forse perché non sento più la campana. Forse perché Don Fastidio s’è appisolato. O magari perché, a forza di dài e dài e minuti ammucchiati, ho tirato le somme, e ho le ore contate.

giovedì 16 maggio 2013

Tette e Blub




Novantasette! Ma no, era ottantasette! Macché, novantadue! O forse Ottantadue? No, aspetta, quello era l’anno dei mondiali di Tardelli, Cabrini e Scirea; forse il novantaquattro! 
Non è una canzonetta sui numeri da giocare al Lotto, ma il fiorire di percentuali relative alla possibile incidenza cancerogena sulle tette di Angelina Jolie. Sui social network la discussione imperversa: è giusto, è sbagliato, è una santa, ha esagerato, è una buona madre, è un’ipocondriaca... Se ne parla perché la maggior parte dei quotidiani ha piazzato la notizia in prima pagina: l’attrice, di fronte a un rischio provato di ereditare dalla madre un tumore mortale al seno, ha optato per una mastectomia totale. 
Su, ripetete con me: tette-prima pagina-attrice (be’, vabbe’, facciamo finta)-cancro. 
E che sarà mai?! Non se l’era già rifatta una volta, la carrozzeria? Le basterà tornare all’officina, schiudere il bolso portafogli e rimpolpare il povero petto azzerato e perfettamente ricamato con adeguate protesi, no? Insomma: fare quello che ad altre centinaia di donne è negato dalle contingenze.

La crisi economica sta sfondando la suola del vecchio e già logoro stivale; il suicidio degli imprenditori del Fu Ricco Nordest, per il numero di adesioni, potrebbe entrare nel novero delle discipline olimpiche; si ciancia di riforme del mercato del lavoro in totale assenza di materia prima, con buona pace dei sindacalisti incazzati e per la gioia inerte di quelli lassisti; la deceduta sinistra va a braccetto con una destra becera, affarista e manigolda; alcune cariche dello stato protestano in piazza contro altre cariche dello stato; e il solito anziano e bavoso satiro continua a farne una più di Bertoldo, tanto chi lo ammazza?!
Chiedo venia, ma viviamo in un paese di decerebrati. Io posso pure imparare a farci il bagno, nella merda. Ormai lo stile libero, il dorso, il delfino e la rana mi vengono una bellezza. Ho ancora qualche problema a nuotare a farfalla, ché il liquido è vischioso e mi toglie la polverina dalle ali, ma con il fiato residuo mi piacerebbe espellere l’ultimo commento acido, se permettete: delle tette della Jolie, dei suoi millemila figli, di quel bel tomo da profumieri che ha per marito, delle dolenti note familiari di ricchi divi patinati, a me, non frega proprio un accidente. 

Ecco, adesso posso finalmente sprofondare.
Blub.

mercoledì 1 maggio 2013

Primo Maggio




È il primo maggio, festa dei lavoratori.
Un cameraman del tiggì regionale punta l’obiettivo contro lo specchio della porta a vetro; quella si apre, ché la fotocellula, da brava, obbedisce. L’operatore entra. Chiede al direttore di poter girare qualche immagine all’interno del centro commerciale. Qualche telefonata, una breve riflessione, e la telecamera può ficcare il naso tra gli scaffali.
È il primo maggio, festa dei lavoratori.
Da oggi indossiamo la divisa estiva; jeans e polo rossa, con il solito monito ricamato in blu, che invita il cliente a farsi servire e riverire come e per quanto tempo crede. L’occhio meccanico si posa furtivo su qualche volto, sulle mani operose dei colleghi stanchi, sulle mille carte che svolazzano inesorabilmente sui tappeti mobili delle casse.
È il primo maggio, festa dei lavoratori.
1) Un telo da spiaggia con l’effigie della bandiera americana. 
2) Uno scolapiatti, una presina, un guanto da forno.
3) Tre maxi-cuscini da divano color arancione.
4) Un telefono cellulare da quaranta euro.
5) Un telefono cellulare da sessanta euro.
6) Un materasso auto-gonfiabile.
7) Un completo da letto, un ferro da stiro.
8) Un set di copri-sedia, una presina di silicone.
9) Un dispenser per il sapone liquido e due bicchieri porta-spazzolini.
10) Due scatole porta-cianfrusaglie di plastica.
11) Una tovaglia, un grembiule da cucina, un diffusore di fragranze.
12) Un accappatoio, un set di asciugamani lilla.

È il primo maggio, festa dei lavoratori; e alla sporca dozzina, si aggiungono i vincitori assoluti: gli acquirenti di, rispettivamente, un set di sei grucce di plastica rossa e una cornice di finto-legno di quindici centimetri per diciotto. 
Non potevano vivere senza quegli oggetti. Neppure per un giorno. Ché le scuole sono chiuse e loro, al lavoro, mica ci sono andati! “Dove li trasciniamo, maledizione, ‘sti figli?! Al parco, con questo tempo incerto? Alla sagra della zucchina, che poi magari ce li rapiscono e ce li farciscono con il gorgonzola?”. Come dar loro torto, in effetti...

È il primo maggio, festa dei lavoratori.
Noi non siamo numeri. Tali, siete stati voi. Voi clienti, infastiditi perché gli altri centri commerciali della zona erano chiusi - ‘sti stronzi! - il giorno della festa dei lavoratori.
E ho sorriso, e ho detto buongiorno e ho invitato a fare una copia dello scontrino, per cristallizzare garanzie volatili.
Appuntata sulla polo, però, avevo una spilla, che recitava “Chiedimi se sono felce”. Avete letto bene: FELCE, non felice. L’opera ingegnosa e buffa di Elisa Sartori, una giovane artista cresciuta nel bosco curioso dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, proprio come me.
Ed è stato uno spasso rispondere “NO” ai clienti che ci sono cascati. Uscivano certi che io fossi triste, non che affermassi la mia appartenenza al genere umano.
È il primo maggio, festa dei lavoratori. E delle non-felci in incognito.

Lo ha detto anche il tiggì, che oggi è il primo maggio, festa dei lavoratori; anche se noi non ce ne siamo quasi accorti.

giovedì 21 marzo 2013

Ciao ciao, Pietro


Molto prima di Forrest Gump, prima di “stupido è, chi lo stupido fa” e di “sono un po’ stanchino”, io correvo. Era il 1986 e lo Squadrone della quinta elementare era composto quasi esclusivamente da maschi. Quasi. Non avevo leziose trecciuole infiocchettate, né gonne plissettate, né camicie rosa a far capolino da sotto il grembiule inamidato. Io, il grembiule, non lo mettevo mai. Finiva appallottolato nella cartella un minuto dopo il trillo della campanella d’ingresso. 
A ricreazione, mentre le femmine - glauche, acconciate e ricamate - giocavano a mamma-casetta sotto il pesco, lo Squadrone guadagnava il margine del cortile, pronto a tagliare l’asfalto a tutta velocità. C’erano Carlo, Mario e Sandro; qualche volta Davide, Stefano ed Emanuele. Andrea era troppo alto, ma ci provava lo stesso. E poi c’ero io. Pantaloni da battaglia, il muso di Topolino sulla T-shirt, zazzera appena sopra gli orecchi e scarpe da ginnastica. Grigie e con lo ssstrap, Così, se serve, te le togli in un secondo, diceva mio padre. All’immaginario nastro di partenza eravamo tutti uguali. Magri-grassi-alti-bassi-pallidi-scuri-timidi-spaccamondo. 
E maschi. E una femmina che sapeva arrampicarsi sugli alberi.
Poi qualcuno fischiava e la corsa aveva inizio. Si arriva fino alla rete verde e si torna indietro: il primo che tocca questa macchia a forma di patata, vince la gara!
Mandria di piccoli bisonti. Scalpiccio. Fiatoni. Grida guerriere.
Io non riuscivo a tenere ferma la lingua. La spostavo freneticamente da sinistra a destra e viceversa, tra le labbra a fessura. Forse il mio motore era lì. Corri!, ripetevo, Corri e non pensare a niente. Non alla milza dolente, non alla gola asciutta, non al calzino con il buco che strozza l’alluce, non al compagno che sta gridando Cavoli! Va come Mennea!
Raggiunta la chiazzapatata, in debito d’ossigeno, finivo puntualmente sulle ginocchia. 
Non vincevo sempre e poco m’importava. Quelli, erano i migliori diecimetristi da Squadrone dell’universo. Perché non si limitavano a includermi nel branco con tutta la naturalezza della bonomia infantile; grazie a loro era gioia allo stato brado, quella che risaliva dai polpacci agli zigomi. 

Credo non lo abbiano mai capito, i ragazzi, quanto mi facessero sentire dio, quando mi chiamavano Pietro.


sabato 16 marzo 2013

La Zecca preferisce il cane




In un mondo parallelo a questo, c’erano una zecca e un gatto annoiato. La zecca faceva la zecca: succhiava il sangue per i fatti suoi, placida e beata. Il gatto, fingendo bonomia, desiderava avvicinarla, per arginare il tedio della propria esistenza, ma quella pareva sorda e cieca. In realtà, l’ematofaga conosceva bene quel bolso felino spelacchiato e non aveva intenzione di dargli corda; ché errare è acaro, perseverare è da idioti.
Bolso Felino le inviava lettere, commentava le notizie che la riguardavano, cercava d’infilarsi tra i pelami prediletti di Zecca, ma non c’era verso: continuava a essere bellamente ignorato, bloccato, rifiutato. E, uno come lui, mica poteva subire una tale onta senza reagire! Cominciò a insultarla pubblicamente, sottolineandone l’innegabile bruttezza fisica, citando film preziosi a casaccio, per farle torto (lei era una cinefila), prendendosela con il suo ambiente (lei era una cinofila), accusandola di essere di facili costumi (una zecca zoccola?!). Ma Zecca fece spallucce, per l’ennesima volta. Una riflessione, per un breve istante, le passò per la testa: considerata la progenie, avrebbe proprio dovuto consultare la madre di Bolso Felino; la Signora Micia, di certo, avrebbe potuto fornire numerose dritte, per affinar l’arte più antica. Sai com’è, in tempi di crisi...
Ma quel pensiero fu tosto ricacciato nell’ombra, ché Zecca aveva cose ben più importanti cui dedicare il proprio tempo: un’ottima cineteca, un habitat delizioso, un diario da aggiornare. Privatissimo.

giovedì 14 marzo 2013

Guru




Mi si è aperto un mondo: un sostantivo, un aggettivo stropicciato, e i miei piedi virtuali fermi lì, a un millimetro dal baratro. Chrome, poi Google, click sulla banda di ricerca, “frasi+motivazionali”, enter. 
Ah, però! Siti specifici, testi acrobatici, sguardi magnetici a profusione. Chi l’avrebbe mai detto?! Ci sono un sacco di illuminati che, per professione, fanno i life-coach (eh?!), i guru-telematici, i consiglieri delle dive. Pare anche che guadagnino dignitosamente, questi strani personaggi. Be’, d’accordo, “dignitosamente” non è l’avverbio più consono alle suddette attività, ma chiudetelo, quell’occhio bizzoso!
Un tizio, per farla breve, dopo aver passato buona parte del proprio tempo a spulciare raccolte di aforismi, aver effettuato una gioiosa cernita a caccia dei potabili, aver memorizzato il nome di ogni autore più o meno celebre, corre ad acquistare un bel gessato. Una puntatina dal barbiere, una dal dentista per lo sbiancamento degli incisivi, et voilà!, Tizio si trasforma in un Esperto di Qualcosa. Fascinosissimo. Scafatissimo. Tutto certezze, bicchieri mezzi pieni e pollici sollevati che manco Fonzie.
Un numero impressionante di aziende ricorre a questi Tizi. Spesso, addirittura, si utilizzano i loro servigi per formare altri Tizi. Gli allievi Top, i migliori, con una bella medaglia sul risvolto della giacca e un diplomino con su scritto “Automotivato Certificato” finiscono per dirigerle, le aziende. Perché hanno capito che la vita è bella, che la-mia-casa-è-la-tua-casa, che non conta quante volte cadi ma quante ti rialzi, e via cianciando.
I Tizi di seconda generazione, rampanti e sorridenti quanto basta, sembrano essere convinti che, al mondo, non esistano che Tizi come loro. 
Forse è per questo che si sentono in dovere di prodigarsi, di darsi al proselitismo. 
Forse è per questo che spulciano libri pieni di aforismi. 
Forse è per questo che si concedono un lessico approssimativo.
Forse è per questo che spiegano ad altri, spappagallando i maestri-Tizi, come fare ciò che loro stessi evitano come la peste bubbonica.
Forse è per questo che camminano così impettiti, nel tragitto porta-poltrona, mentre ti raccontano che la ramazza è fondamentale, per rimanere eretti; o che i negri hanno la musica nel sangue, specie quando non ci sono più le mezze stagioni, ché si stava meglio quando si stava peggio.

Be', forse.

O forse hanno soltanto una scopa nel culo.

giovedì 21 febbraio 2013

Elsa e Il Muto




Elsa ama starsene lì, a pochi centimetri dalla propria salvezza. Elsa si sente forte: chi prevede e giustifica la sua esistenza ha una voce baritonale e possenti spalle anti-pioggia. Anti-tutto, per essere precisi. 
Elsa ghigna; non sa trattenere la smorfia in gola. Se ben avvitata, può persino permettersi qualche sberleffo, da inviare non troppo regalmente all’interlocutore che, muto e disarmato, resta fermo di fronte al suo amico. L’unico, prepotente amico di Elsa. 
Elsa è piccola, sottile e fragile ma, immersa nel brodo del “Mo’ chiamo mio cuggino”, è certa di essere indistruttibile. 
Elsa ha grandi occhi. 
Ciechi.
Potrebbero vedere, ma preferiscono non farlo, perché sanno che Elsa è fatta così; che coltiva il proprio orto a rape, e guai a chi gliele tocca.
Elsa gongola quando, chi per lei, coglie in fallo - o è convinto di farlo - l’Interlocutore Muto.
Elsa ignora. 
Un sacco di cose. Inclusa l’ovvietà del fatto che un Manico, senza lama, valga assai poco. E pure che lei stessa, in un istante di distrazione di massa, potrebbe finire nelle mani sbagliate. Magari quelle di un Interlocutore, rimasto potenzialmente tale e Muto, sino a un secondo prima; quando, più o meno casualmente, si è accorto di avere tra le dita un’intera spada.

martedì 12 febbraio 2013

Too cool




Temo di essere un tantino snob. Probabilmente anche la saccenteria non mi fa difetto. Lo ammetto a priori; così, se dovessi inciampare, sul selciato finirebbero i palmi delle mani, piuttosto che il lungo mento che mi ritrovo. Perché sospetto di avere il tipico naso all’insù di chi schiva nauseabondi afrori? Mi succede, sempre più spesso, di provare una vischiosa sensazione di disagio: la vergogna. 
Per gli altri. Quegli altri che, evidentemente, sono sguarniti della ghiandola che la secerne.
Avete presente, giusto? È quel magma ardente e bituminoso che sembra squagliare ogni cellula del corpo in un brodo denso, ove galleggiano infiniti Oh, my god! - ché stranirsi in inglese è tutta un’altra musica - cui appigliarsi, disperatamente, tra marosi superlativi. Ci avete fatto caso? Ogni “issimo”, nella bocca di alcuni stolti, si fa chicco di riso, assai poco raffinato e moltiplicato all’ennesima potenza, vettore di una sequela di aggettivi martoriati. La tardona seminuda e stivalata in una discoteca di sedicenni non è goffa e fuori tempo massimo, ma “sexissima”. Il collega tonto e ciarliero non è tale, ma “divertentissimo”. La tizia che sfoggia un lessico da portuale iracondo, non è volgare, ma “scafatissima”. 
Le stesse labbra, solitamente, dopo aver pronunciato l’insopprimibile battuta del secolo, modulano una risata sguaiata tutta gola e denti - inversamente proporzionale al livello della gag - impermeabile ad altrui mascelle serrate, bulbi oculari estrusi, sobri rossori di gote.
Perciò facciamocene una ragione: siccome, per noi snob fanatici della forma, tentare di spiegare il profondo significato del termine “opportuno” a un fichissimo sarebbe utile quanto un loden addosso a un cinghiale, non ci resta che perpetuare in sordina, le dita tra i capelli, la vergogna per conto terzi. Che, tra l’altro, è cool da matti. Anzi, coolissima.

lunedì 28 gennaio 2013

Altro che Proust!




È fredda, la pioggia di inizio anno. Le lettere di questo gennaio paiono spugne intrise d’acqua, strizzate di continuo sulla terra gelata, sugli ombrelli, sui cappelli cerati dei pescatori. Ma ieri, una domenica di tregua, il sole c’era. Nemmeno troppo pallido o tiepido, a onor del vero. E allora gita, eccheccappero!, ché non se ne può più d’inventar giochi da interno per adeguarsi alle inesauribili energie del quattrenne di casa.
Traghettati i sei piedi e il monopattino dall’isola a Venezia, abbiamo aggirato l’orda barbarica dei turisti - già stracarichi di coriandoli e idiote espressioni carnascialesche - infilandoci in calli segrete, vie di fuga sconosciute, sentieri con i masegni meno consumati che altrove. Poi, come per magia, ecco apparire la Riva degli Schiavoni, ammollo nel tramonto. San Marco è già alle spalle, siamo salvi.
Tre lunghi ponti. Le piccole luci colorate si fanno brulicante tripudio stroboscopico. Il piccolo salta come una palla di gomma; incapace di contenere l’entusiasmo tra scarpe e berretto, ha bisogno di allungare la verticale, di issarsi ad altezze adeguate alla trepidazione ludica per eccellenza: l’attesa del primo giro.
L’ultima giostra, ciliegina su una torta di meccaniche curiose, gridolini infantili e profumo di frittelle, gracchia ilare accanto agli autoscontro “dei grandi”. È esattamente come la ricordavo. La belva è dello stesso identico verde pisello, mostra il solito sorriso beato e l’occhio estatico da abuso di LDS. Ci sono i vagoncini, c’è il rosso frutto proibito, c’è il questuante minorenne imbronciato che raccoglie i gettoni dalle manine tremanti. Topodimamma trilla alla partenza, spalanca gli occhi alla prima curva e, lungo la discesa spericolata, quella che “guarda-qui-come-va-veloce!” ride a tutta bocca sputando fuor di sé, insieme a un enorme bolo di allegria, un più che legittimo pizzico di fifa.
La felicità diventa solida, quando t’investe una simile onda di giubilo; lui si diverte, e ogni istante si fa paradiso. 
E comunque sì, lo ammetto: andare alle giostre con un figlio piccino è una trovata diabolica, ché non credo esista scusa migliore per riuscire, dopo almeno un trentennio, a farsi un giro - l’ultimo, promesso! - sull’adorabile Brucomela.

giovedì 17 gennaio 2013

Chewingum blues



L’occupazione, quest’anno più che mai, pare un chewingum: una robaccia sintetica da non ingerire, ma che si allunga, si lascia plasmare ed è perfetta per ruminare, restaurare l’alito e riempire la bocca di qualcosa. Impastato dalle solite lingue raspose, tutto quell’ipotetico lavoro - ossimoro per sofisti? - pare traboccare oltre i denti sbiancati di glauchi colletti. E sono zanne aguzze, le loro, affilate come asce da quercia. Autobus rivestiti, cartelloni seipertré, manifesti da marciapiede, volantini distribuiti - ne dubitavate? - da volontari (pronti all’agguato dietro ogni angolo di strada), da giorni mostrano incisivi e canini a profusione; accanto a simboli più o meno convincenti, corredati da slogan ruffiani, facili, italianissimi.
Poi c’è l’impiego, quello vero. Che manca al trentasette per cento dei giovani. Che, quando c’è, si fa flessibile, elastico, poco o per nulla retribuito, a tempo, doppio, triplo, carpiato; persino mortale, giusto per non farsi mancare niente. Un lavoro da proteggere e conservare anche quando scapperebbe di cantare un blues, facendo tintinnare la catena alla caviglia; da tutelare dai monsoni della crisi, da salvare a qualsiasi costo, magari sventolando antiche, solidali bandiere, per sentirsi rispondere “Be’, dammelo più avanti, il modulo. Magari mi c’iscriverò al sindacato, prima o poi, se ne avrò bisogno”. 
Il morbo si è insediato. Ha attraversato la pelle dei sudditi, rendendo l’espressione dei loro volti del tutto simile a quella del faraone. E non c’è richiamo alla coscienza che tenga: è impossibile seminare bulbi di gladioli nel deserto.
Le braccia lungo i fianchi, torno sui miei passi, ad auspicare una reale discesa in campo della vetta piramidale; un bel venti-acri coltivato a patate, possibilmente. 
Intanto me ne resto qui, davanti a un seipertré che mi spiega come dilatare meglio i pori, a rileggere 1984, di quella buon’anima di Orwell, sperando di tenere vivi gli anticorpi.