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lunedì 24 giugno 2013

Una che conta




Ne ho uno al polso. Un altro, quadrato e con la cornice metallica, frutto di una delle nostre puntatine da Ikea, è appeso alla parete della sala da pranzo, di fronte alle finestre. Ci sono quelli che occhieggiano dal cellulare e dalla base del cordless, digitali e minuscoli come il timer del portatile o del computer nello studio. Ci sono orologi ovunque, in questa casa.
Eppure, ogni volta, ci ricasco.
Mentre Don Fastidio, come al solito, tira la corda, la campana di San Donato tende la fune d’appoggio, che gracchia e s’allunga finché può, per poi cedere di schianto. Il tempo viene fatto regolarmente a fette e io non so resistere, ché l’enumerazione silenziosa sfila nella mia testa, senza briglie né ostacoli, anche quando la derelitta è concentrata altrove: Dàn-Uno, Dàn!-Due, Dàn!-Tre, Dàn!-Quattro, Dàn!-Cinque, Dàn!-Sei, Dàn!-Sette, Dàn!-Otto, Dàn!-Nove, Dàn!-Dieci, Dàn!-Undici, Dàn!-Dodici. 
Sospiro di canapa e poi silenzio.
Ah, fissazione maledetta! Quanto ti odio, a mezzogiorno!

Ci sono ore che contano, perché giusto in quegli istanti un’attesa epifania prende forma, scade il termine massimo per pagare una bolletta o per partecipare a un concorso. Ci sono ore che contano perché un figlio nasce in un istante preciso, né un minuto prima, né uno dopo. 

Mi do sui nervi. So che è una mania idiota, ma non so respingerla: io conto le ore; le ore che mi separano dalle prossime da contare. 
A tarda sera, quando la stanchezza prende il sopravvento, smetto. Forse perché non sento più la campana. Forse perché Don Fastidio s’è appisolato. O magari perché, a forza di dài e dài e minuti ammucchiati, ho tirato le somme, e ho le ore contate.