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sabato 18 gennaio 2014

Remissiva




Ieri ho rimesso. Ho vomitato, non ri-attribuito a chicchessia debiti di dubbia natura, ché ultimamente aspiro alla santità, sì; ma paterna e divina, ancora, non mi pare d’esserlo.
Una nausea cattiva, stringente, correva tra lo stomaco e le vertebre come un bufalo ansioso colto da labirintite. E, all’orizzonte, niente Due Calzini né Kevin Costner nei panni di John Dunbar, con i baffoni parecchio statunitensi o bardato da sioux, ché come Balla Coi Lupi quello lì, quando s’impegna...
Io, manco a farlo apposta, assomigliavo anzichenò a Mary McDonnell, in versione Alzata Con Pugno: selvatica, puzzolente, raggomitolata e scarmigliata come da copione. Solo che di fronte a me non c’erano laghetti o praterie, ma una ben più prosaica tazza del cesso, in soave porcellana bianca.
Al posto del lupo con le zampe nivee, c’era Il quasi-cinquenne Topo, da tenere giù, al piano di sotto, onde evitare che lo spettacolo di mammà-Linda Blair potesse inquietarlo (una digressione è concessa, se c’è di mezzo L’Esorcista).
Al posto del tenente Dunbar, c’era il consorte; uomo assai meno insipido e quattro spanne più fascinoso del Kevin. Fascino del quale avrei potuto godere appieno, se la mia faccia livida non fosse rimasta parallela al pavimento, incorniciata dalla tavoletta del wc, per quella gioiosa mezz’ora.
Trattenendo Il Topo, è venuto più volte a controllare come stessi. Ha tirato lo sciacquone quando non riuscivo a sollevare il braccio. Mi ha massaggiato una spalla e, per il breve istante in cui sono riuscita a sbirciarne lo sguardo, pareva pensasse: “E l’operazione, e il ciclo, e l’emicrania, e il vomito... oh, mia schifezzuola adorata, non è che aspireresti a una sciatica carpiata? A un bel colpo della strega a tradimento? E un bel fuoco di Sant’Antonio, niente?!”
Appena lo stomaco è parso quasi stabile, mi sono bevuta l’anti-dolorifico magico, sciolto con cura in due dita d’acqua dal Fascinoso.
Al grido “Nimesulide: santo subito!”, ho raggiunto il letto strisciando, più piatta degli indiani di vedetta.
Nanna alle nove, come non capitava da anni; e senza cena, contro ogni plausibile effetto pseudo-Lavazza. 
E ‘fanculo al chirurgo, al bruciore, al detergente sbagliato, ai gradi di gravità ch’erano quattro e non due, alle mestruazioni assassine e alla fotosensibilità. E pure alle praterie del Texas, va’.


sabato 11 gennaio 2014

ma la scia




Mondare. A questo, tendevo. Nettare la superficie della mia nuova veste e ornarla del buon odore chimico di un non-sapone. Sfregare, solcare la pelle con le unghie, risalendo lungo le tracce brune, per ridare fiato ai pori, alle cellule ancora vive sotto la coltre immobile, sterile, mischiata a quella colla senza più garze cui aderire. Trasformare la terra nera in una nuova schiena, un nuovo polso, nuove coste in bella evidenza.
Ho rimosso i medicamenti, l’ovatta, la mezza valva di un elettrodo, megafono ormai muto del toracico, chirurgico jazz, ch’era sfuggito allo strappo dei cavi. 
E tutti a mimare il dolore! E tutti a lasciare impronte, affinché sia possibile allestire qualche nostalgico dejà vu.

Un catino, colmo di bianco brillante. E quel tanto d’acqua per diluire. E un cucchiaio di legno, di quelli che non si usano più, per miscelare in profondità. E una pennellessa, ampia e con l’impugnatura di legno, per non scivolare.
Ridipingere ogni parete con cura, attenti a non graffiare il muro, a non sbavare, a seguire la direzione della luce. Una mano. Due, Tre. 
Tutte quelle che servono per annullare l’alito degli spiriti; gli spettri albini di cornici, armadi e sofà, impressi su facce e tramezzi caffellatte. Sospesi da anni, in un’infinita posa B di una reflex analogica.

Mondare. Riempire i polmoni.
Fare un bagno dopo due giorni dalle dimissioni, ché non è il male, a fare male, ma la scia.
E infilare la testa sotto il pelo della schiuma, per qualche secondo, mentre l’alito d’etere, la tintura di iodio, l’adesivo nero dei cerotti, finalmente, se ne vanno.