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lunedì 17 marzo 2014

Un euro




Era venerdì. Viaggiavo sul solito diretto delle otto e diciotto, con il naso tuffato tra le pagine di Saramago. 
Il ponte delle Guglie alle spalle, appena imboccato il tratto di canale che bagna Riva de Biasio, il brusio assonnato delle comari, in un istante, s’interrompe. Un uomo, quarant’anni e una fitta barba scura, si alza a stento dal sedile riservato ai disabili e alle donne gravide. È alto. Con il capo sfiora il tetto dell’imbarcazione. Sembra guardare un punto lontano, perso oltre le lastre luride dei finestrini. Prende fiato e si rivolge ai passeggeri: «Signori, scusate il disturbo,» dice, «mi dispiace importunarvi, ma ho bisogno del vostro aiuto. L’equipaggio mi ha spiegato che non potrei farlo, ché rischio una multa. Rispetterei questa regola, se potessi, ma sono costretto a infrangerla... ho perso il lavoro e percepisco una pensione d’invalidità di duecentocinquanta euro al mese. Non so come acquistare il cibo. Vi chiedo se potete darmi qualcosa, prima di scendere. Nessun obbligo, ma vi prego: se deciderete di regalarmi una moneta, cercate di non farvi vedere: l’ho promesso al capitano. Vi ringrazio. Scusate ancora.»
Il silenzio pare una nuvola bassa. Una di quelle che lasciano intatte chiome e radici degli alberi, per fagocitarne i tronchi. Dei passeggeri, si muovono i capelli, solleticati dalla brezza primaverile; e le dita. Alcune corrono a intrecciarsi, altre a scorticare pellicine intorno a lunette sbiancate; la maggior parte, a pescare portafogli dalla borsa, dallo zaino, dalla tasca dei jeans, schiacciata tra sedere e sedile.

Gli ho dato un euro. Mi ha ringraziato. Mi ha sorriso. Mi ha augurato una buona giornata. Sono scesa dal battello e non riuscivo a deglutire. Ho chiamato il consorte e gli ho raccontato tutto. E si è parlato di cause ed effetti e derive. E non riuscivo a deglutire. Sono salita sull’autobus. Un minuto prima di partire, si è riempito di studenti. Giovani musicisti che parlavano in inglese, incastrati tra custodie vezzose e brevi di violini, austere e ingombranti di contrabbassi, lievi e sottili di flauti e clarini. Mi sembrava di essere stata catapultata su un altro pianeta. O negli spazi bianchi tra le righe più annichilenti di Kafka. E, ancora, non riuscivo a deglutire.
Ho prenotato la fermata Sansovino. Sono sgusciata dalla massa di occhi grandi, spartiti e fermagli adolescenziali per guadagnare il marciapiede. Ho raggiunto l’auto. Messa in moto e innestata la marcia. Sono riuscita a inghiottire una compressa di saliva, ma solo dopo aver pianto un po’. La giusta quantità di lacrime, funzionale alla dissolvenza parziale del groppo.

Stavo andando a lavorare. Io ce l’ho ancora, un impiego. 
Vendo aria fritta a signore danarose e annoiate, che chiedono consiglio per abbinare il tappeto al divano, mentre sbuffano e picchiettano le unghie su superfici a caso. Sbuffano perché aspettano più di quanto ritengono sia appropriato, per l’imballaggio di un paio di abat-jour e, per ingannare l’attesa - cagionata dalla manifesta inettitudine della sottoscritta - mi raccontano quanto sia seccante riarredare un appartamento a Venezia, specie se non si riesce, entro i termini dettati dalla tabella di marcia, a disfarsi dell’inquilino che ne occupa i locali. Non annuisco. Nemmeno mi sforzo di fingere: non ho gomiti solidali da far schioccare contro i loro.
«Che cazzo ci faccio, qui?» mi chiedo, Mantra interiore e muto. «Ti ci dovresti arrotolare dentro, al tappeto, e poi buttarti nel primo fiume, stronza» sentenzio. Sempre nella mia testa, sempre in silenzio.

La nuvola bassa mi è rimasta attaccata al cappottino verde. Mi sfuggono le dinamiche dell’ineguaglianza e il peso di quello che è scomparso: il perimetro di ciò che, dai capelli alle mani, fa della gente ciò che la gente è. O è diventata.

Un euro. E non ho risolto niente. E ho avuto una pessima giornata. E non so dove trovare labbra e denti compiacenti da incollarmi alla faccia per il prossimo turno, per il prossimo viaggio, per il prossimo anno.
Non riuscirò mai più a deglutire.