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martedì 12 agosto 2014

Estinzione di un poeta



Nel Settantanove avevo tre anni. Eppure mi ricordo l'uovo, lo sguardo rivolto verso l'alto, poco prima del contatto con Orson e quella meravigliosa tutina rossa con il triangolo argentato, che pareva il mio pigiama di ciniglia.
Quando, al liceo, studiando la storia dell'arte m'imbattei in uno degli infiniti autoritratti di Schiele, non seppi trattenere le risa: anche il buon Egon, come Mork, faceva Na-no-Na-no con la mano. 

Durante una verifica, l'insegnante di lettere ci assegnò il tema da svolgere. Dovevamo scrivere brevemente la trama di un film che ci aveva colpito e approfondire, durante lo svolgimento, gli aspetti psicologici caratterizzanti della pellicola. Quasi tutti descrissero le gesta del professor Keating. Un goal a porta vuota, ecco. l'Attimo fuggente sembrava fatto apposta per folgorare le anime di quindicenni straziati dalla fatica di esistere. Io no. Volevo fare l'originale, tanto per cambiare. E non rivelai mai a nessuno quanto suonasse barbarico il mio, di yawp, quando non c'erano orecchi nei paraggi. Tacqui, ché conoscevo quella fatica più di quanto gli altri sospettassero.
Piansi quando morì Neil e quando i suoi compagni salirono sui banchi. Piansi, in rima con quegli occhi bonari, mentre De Niro tornava catatonico in Awakenings. Piansi per l'infinita poesia di Al di là dei sogni. Piansi quando Patch Adams si mise il primo naso rosso. Piansi allo scoppio della bomba al bar in Goodmorning Vietnam. Piansi persino quando a Mrs Doubtfire andarono a fuoco le tette.
Piansi perché ero una frignona, probabilmente. O forse perché Robin Williams era vero. Niente dialoghi smozzicati ed espressioni da triglia sdoganate dalla fiction italiana, né pose plastiche e aloni fluo da telenovela. Quando recitava lui era impossibile distinguere persona e personaggio. Riusciva a sollevare lo spettatore come un panno sporco e a metterlo in ammollo in acqua saponata, impastandolo e strizzandolo, senza che lui se ne rendesse conto. Alla fine di ogni film si era costretti ad annusarsi, per scoprire un odore nuovo sulla propria pelle, fatto di consapevolezza, di visioni che avrebbero avuto uno strascico, di nostalgia istantanea, di languore.

Robin Williams è morto. 
Pare si tratti di suicidio.

E spuntano come funghi i soliti stronzi. Quelli che devono ribadire quanto sia inopportuna una simile scelta per un miliardario. E, parimenti, quelli che devono spiegarti che anche i ricchi piangono (ma solo dopo aver elencato lunghe liste di problemi legati a droga e alcol).
La faccenda è più semplice: il mondo, tra i tetti e l'erba, fa schifo. C'è chi cerca di cambiarlo come può. Quando si accorge di non riuscirci può decidere di adeguarsi o di darsi alla fuga. Di scorticarsi le nocche contro il muro o mollare la cima. «Ma su, c'è lagggènte, lì fuori!», blaterano i soliti stronzi. Non capiscono che il problema è esattamente quello. Se il mondo fosse fatto solo di tetti, per i sogni ci sarebbe un sacco di spazio.
Ora partirà la rincorsa delle emittenti televisive: faranno a gara per sfornare l'intera filmografia dell'attore. È pure estate, quindi una replica vale l'altra. Ci voleva proprio, un bel lutto corposo, per alzare gli ascolti. 
E io, sciocca, orfana e triste, non saprò far altro che rimpinguare l'audience.

Buon ritorno, Mork. E salutami Orson.