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lunedì 27 ottobre 2014

Odio ottobre




Odio la tosse secca. Muco debole e fuggitivo che allunga le zampe oltre l'ugola così, giusto per farsi fastidioso oltremodo. Odio nebulizzare le nari per riaprire un minuscolo varco in tutto quell'immobile ottundimento. E odio dormire, in simili condizioni; ché se riposi di lato il naso si tappa da una parte sola, costringendoti a girarti e voltarti come una fettina impanata. L'unica alternativa sarebbe il sonno a pancia in su che, è risaputo, provvede alla par condicio mucolitica. E dormirei pure, in quella posizione, se non odiassi farlo. E se non odiassi la gola secca e riarsa del mattino dopo. Dopo la russata del secolo.
Odio il raffreddore, ecco. Specie quando si sovrappone al ciclo mestruale. Specie quando, quest'ultimo, è già in compagnia di svariate affezioni neurologiche.
Odio il raffreddore, il ciclo e i nervi. E odio le Leopolde. E i neo-yuppies in camicia bianca e lauto conto in banca, amici di scrittori furbi, divenuti ricchi spacciando sogni di gloria. E assenti, che fa più fico se emozionano a distanza. Odio anche le anziane sindacaliste che mi rendono difficile spiegare ai colleghi di lavoro che il sindacato ha ancora un senso, che s'ha da fare, che l'individualismo è una piaga insopportabile. E odio pure spiegare che l'individualismo è un boomerang e che avevano ragione Tozzi, Ruggeri e Morandi: "tanto, prima o poi, gli altri siamo noi".
Odio il metodo al servizio del dolo. Boffo o non Boffo, ti licenzio e non ti reintegro. Ché togliersi un rompiballe dai piedi, sborsando poche migliaia di euro, è comunque una forma di investimento. Odio le minacce velate e quelle svelate. Odio gli abusi di potere e gli scacchi di un colore solo. Odio gli slogan, le parole che sanno di muffa, ma pure quelle troppo, troppo nuove. Così nuove da suonare ottocentesche. E odio il bue che dice cornuto all'asino. Tacesse, porco cane! Che è quasi ora di alitare sul rinato bambinello e poi vediamo se non gli serve, il supporto del bistrattato ciuccio.
Ecco. È semplice, in fondo.

Odio ottobre. E oggi è ottobre.

E ho il raffreddore, il ciclo e i nervi.

lunedì 13 ottobre 2014

Buh!



I centri commerciali non sono più pieni come uova. Neppure durante il fine settimana. Ma le risorse per retribuire il personale sono poche e i commessi, decimati dalla crisi, annaspano comunque. Quindi, se malauguratamente si è una quota di quella scarsità, lavorare il sabato resta una maledizione. Gli avventori entrano, passeggiano, si lamentano per i chilometri che sono costretti a macinare tra ingresso e uscita e, nella maggior parte dei casi, non comprano una beata fava. Si limitano a chiedere - grandissimi figli di Lapalisse - se quel coso con su scritto "copri-piumino" contenga, per caso, un copri-piumino; o se il bollone giallo sulla padella antiaderente con stampigliato "-10%" implichi uno sconto sul prodotto del dieci per cento. Non sono più clienti, ma frullatori di ammennicoli bipedi, affetti da labirintite e con capacità cognitive degne di organismi mono-cellulari in via di estinzione.

Sabato, io, ero lì. A lavorare, sia chiaro.
Confermato a un marcantonio africano che sì, glielo avrei portato in cassa, il tappeto, stavo giusto issando quei due metri e quaranta di cannone peloso sulla spalla quando ho rischiato l'infarto. Davo le spalle alla corsia principale e, dietro di me, è riecheggiato un barbarico "Buh!". Per un istante, riposta l'arma impropria, ho pensato "Non-può-essere"; eppure lo conoscevo, quel verso. Era la sua voce. La più adorabile. 
Mi sono voltata e, davanti agli occhi, avevo il Topodimamma in carne e ossa. 

Viviamo a una distanza di circa quattro anni luce, dal centro commerciale. In tre anni, non era mai venuto a trovarmi al lavoro. Papàditopo e Nonnaditopo erano a pochi passi di distanza, divertiti, quasi che le loro bocche fossero balconi ridenti, cui affacciare un'anima curiosa di godersi la scena. 
Ho alzato lo sguardo. Marcantonio Africano mi guardava, come a dire "'mbe'?! Non è che adesso mi tocca portarmelo da solo, il tappeto, vero?". Ché mica è colpa sua, se si è scordato di prendere un carrello! Ho raccattato il cannone - spiegando al Topo che sarei tornata in un batti-baleno - trattenendo a stento la tentazione di sperimentare una nuova specialità olimpica: il lancio della comunità acara, imbalsamata nel modello Greta a pelo lungo. Ché il giavellotto, al confronto, è roba per signorine.

Poi, finalmente, ho portato Topo a spasso, in braccio, correndo da tutte le parti, uffici inclusi. Le leggende del Topo Narratore sono ben note, a colleghe e colleghi. E mi è presa la smania di mostrare a tutti che esisteva sul serio quell'essere mitico, mezzo Voltaire e mezzo Piccolo Principe.
Finiti i minuti a disposizione, rubati in modo assai poco ortodosso al turno, ho salutato il papà, la nonna e Topo, sbaciucchiandolo fino a consumarlo. Le ore successive mi sono volate. Ho lavorato serena. Anche se era sabato. Anche se i copri-piumino giacevano nelle debite confezioni e le padelle costavano il dieci per cento in meno.
I due belli, messa la nonna sul bus, mi hanno aspettato, gironzolando nell'area commerciale fino all'ora di chiusura. Siamo tornati a casa insieme e Topo non ha vomitato in macchina, né in autobus. Raggiunta Venezia, abbiamo pure mangiato fuori. Pioveva. Abbiamo comprato un ombrello da un giovane ambulante che cantava.
E io ero più felice che mai. Nonostante i piedi distrutti e le mille sporte cariche di qualsiasi cosa.

Felice come la cosa più felice che possiate immaginare. Per la giornata risollevata miracolosamente. Perché Papàditopo odia frequentare i centri commerciali, eppure ha resistito. Per me. Per farmi un regalo infinitamente grande. 
Perché il "Buh!" del Topo non era mai stato altrettanto spaventoso.
Né mai, prima, altrettanto sublime.