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lunedì 12 gennaio 2015

Ma Charlie, chi?



Parole. Molte. Scritte, dette, berciate qualche volta. Il giorno degli attentati a Parigi ero a lavoro. Nel purgatorio del magazzino, al freddo, a scaricare, spacchettare, contare, ricaricare e archiviare scatoloni di cartone. Pieni e vuoti insieme. Ingombranti. Taglienti. Pesanti.

Ho saputo cosa fosse accaduto durante la pausa pranzo, quando ho chiamato casa per sentire un po' di tepore.
Un giornale satirico del quale nulla sapevo. Morti. Estremisti islamici. E poi il supermercato, gli ebrei, un bambino nascosto in un frigorifero.
Più tardi, la rete. Il 2.0 che s'indigna, estrude il mento, solidarizza con tasti e fibra ottica e corrente elettrica; e in un istante, indossando un hashtag come fosse il saio dei giusti, ecco tutti diventare Charlie.
Ma Charlie, chi? Tutti francesi? Tutti umoristi? Tutti buddisti (per non sbagliare)? Tutti europei, coraggiosi, pacifisti, difensori della libertà di stampa, delle idee, di culto?
La questione è complessa. Complicata dalle ciance, dalle architetture di carta dei complottisti, dal fanatismo; dalle ideologie preconfezionate, assunte come confetti all'anice e alitate di bocca in bocca, digerite, riproposte in forma di vessillo o di monito.
Si moltiplicano gli esperti; di Isis, di Islam, di Maometto, di politica, di storia. Di disegno, persino. Tutti a caccia dello slogan vincente, dell'immagine più azzeccata, della suggestione più struggente.
Io non sono Charlie. 
Non ho mai fatto satira e, se anche la facessi, vivo in Italia: non saprei essere abbastanza "stupida e cattiva". O forse sì, ma con il sedere al caldo in una nicchia di salvifico anonimato. Ché qui preferiamo essere inoffensivi o, al massimo, spregiudicati fino al limite dell'ammenda, del buffetto, dello stigma da talk-show pomeridiano.
Sono atea. I libri sacri, per me, sono libri. Libri e basta. Che contengono storie. Affascinanti, talvolta. Incomprensibili, persino inquietanti, talaltra. Il sapore oppiaceo delle religioni mi fa stare alla larga dai riti, dai bagni catartici, dagli ostensori, dalle campane tibetane e dagli inginocchiatoi, siano essi a pelo raso o di legno sbalzato.
Non sono francese. E, a dirla tutta, di solito i gallici non mi stanno particolarmente simpatici. Nazionalisti, snob, mangialumache a tradimento e viziati da quell'orribile erre moscia, invadono le città d'arte, chiedono informazioni nella loro lingua madre e pretendono risposte e, se ti sogni di comprare un pacchetto di sigarette in Provenza, dopo aver finto di non capire il tuo francese, alzano un sopracciglio e sbuffano: "Italienne?"
E sì, sono italiana. Abituata a giudicare per conto terzi, assuefatta al conflitto verbale, alle misurazioni da chi ce l'ha più lungo, agli idioti da stadio, ai dispettucci delle comari, alla prostituzione intellettuale.
Aborrisco la violenza. Quella degli altri, ché la mia è giustificata, se mi sorpassi a destra, se mi manchi di rispetto, se offendi la mia stirpe.
Sostengo la libertà di stampa. La mia e quella di chi mi aggrada, ché a Sallusti e Belpietro darei fuoco al tesserino da giornalista senza neppure passare dal via e ritirare le ventimila.
Io rispetto le religioni. Ma se mi suonano i testimoni di Geova alle otto di mattina, se la vicina neocat strilla i suoi "Hai capito?!?" ogni dieci secondi, un vaffa rotondo e grasso se lo beccano anzichenò. Con la rincorsa, se lo beccano.
Io non sono Charlie. Perché Parigi è a Parigi. Perché sono pigra e riottosa. Perché della Nigeria non frega niente a nessuno. Me inclusa.
Non sono Charlie, perché le parole sono come gli scatoloni: ingombranti, taglienti, pesanti.
Non sono Charlie. 
Ma, mi piacerebbe poterlo dire, nemmeno il suo contrario.