Dovrei pulire. Togliere il cuscino, la coperta, il panno bianco. Dovrei anche cambiarmi e mettere la maglia e i pantaloni nel cesto della biancheria sporca. Dovrei far sparire i biscotti al ripieno di carne e gli snack anti-tartaro. Dovrei ragionare e capire dove mettere la cuccia, gli asciugamani che usavamo solo per lei, il libretto sanitario, il collare con il nome.
Perché non servono più.
Invece me ne sto qui. Puzzo di urina e di tutte le situazioni in cui sono stata manchevole.
Resto ferma ancora un po'. Non perché mi piaccia sguazzare in un assai poco dignitoso brodo dolente, né per espiare alcunché; e 'fanpiffero a tutti gli "escusatio non petita..." già in resta. Resto perché ho uno strofinaccio grezzo attorcigliato nello stomaco. Ne sento peso e consistenza, quasi potessi afferrarlo, con le dita piantate sotto le coste.
E perché mi aveva scelto. Mi era saltata in braccio, con la lingua penzoloni e gli orecchi scomposti dalla corsa. Era la più magra del canile. Ma aveva una voglia di stare al mondo come non ne avevo mai viste.
Mi saltò in braccio, dieci anni fa. E ora è morbidezza nella terra soffice.
Russava come una segheria, di notte. Faceva la faccia da cane magro che più magro non si può, davanti a una coscia di pollo destinata a umano piatto. E, finché le zampe hanno retto, correva come una saetta. Veloce, elegante, sottile.
Qui dentro c'è un silenzio troppo gonfio, ed è anche per questo, che resto. Topodimamma, cui dovrò infinite e perigliose spiegazioni, è all'asilo. Il consorte al lavoro, ma per fortuna abbiamo parlato. Al telefono. Ché in momenti così lui c'è anche quando non c'è.
C'è silenzio, e non solo. Un vuoto simile solo a se stesso. Una voragine d'assenza, scandita dai secondi dell'orologio, che mi pare di udire per la prima volta.
L'ho avvolta in una federa ampia e bianca, di un bel cotone solido. Quelle federe di una volta, non la merda che si trova oggi in giro. L'ho adagiata nella buca, piano, con garbo. Piangendoci sopra.
Aveva ancora la testolina morbida, sotto la stoffa.
Le sono rimasti gli occhi semiaperti. O semichiusi. Sul chi va là, ché magari vale la pena rimanere vigili, non si sa mai: le avventure nascono spesso per caso, e non vanno perse.
Con le mani ho raccolto una terra densa e profumata, piena di sassi, piccole conchiglie, frammenti di vetro smussati dai secoli. E poco per volta la federa non c'era più.
Le mani, poi la pala. Poi sono ricomparsi i ciuffi d'erba, rimossi nottetempo scavando.
E poi basta.
Mi sento orfana di Zena. Il cane "vivente". Il perfetto "cane a forma di cane". La cagna. La cana.
E di quando il Topo, ancora a caccia delle prime parole, agitava le manine, rideva e la chiamava "Bù!"
Oggi devo preparare un dolce, ché il Topo, sabato, fa la festa di compleanno con gli amici. Lo farò stasera.
C'è ancora tempo.