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martedì 5 novembre 2013

Appesi a un filo




L’azienda ci ha cambiato la divisa. Per il periodo invernale, non indosseremo più le vecchie camicie bianche -  refrattarie a qualsiasi ferro da stiro - provviste di colletti, polsini e ghirigori blu, ma nuove polo rosse a manica lunga, di qualche curioso tipo di cotone fabbricato, all’ombra di un dragone dagli occhi a mandorla, in Tantamalóra. È rimasto immutato il gilet di pile, straordinario catalizzatore di polvere, peluzzi ed elettricità. Invariati, a dirla tutta, sono anche il marchio (embe’!) e lo slogan, attualmente ricamato con del filo bianco. Filo che, già dopo il primo lavaggio a trenta gradi, pare brami virare al rosa confetto. Assemblaggi creativi, immagino.
Ma torniamo allo slogan. Esso è il grido di guerra, il motto piacione, la formuletta sintetica ideata per attirare l’attenzione, facile da riconoscere e memorizzare. Il nostro - che giace, intrecciato alla trama della polo, sul dorso di ogni maglia - è “Piacere di esserti utile”. Ce lo portiamo addosso sulla schiena, perché abbiamo una vocazione: essere presi alle spalle, di sorpresa, dal cliente smarrito. Smarrito e rompipalle - va chiarito - in questo contesto possono essere considerati sinonimi.
Neppure la presa vigliacca, però, riesce ad atterrirmi quanto la forma e il contenuto del messaggio. Dal punto di vista sintattico, questo slogan ricorda la leggerezza dei convenevoli, interiezioni polirematiche tipiche della lingua parlata. Mi spiego: cosa dite allo sconosciuto che vi sta presentando zia Tilde? Esatto, “Piacere di conoscerti”. La frase, in tal guisa, omette attore, azione e, già che ci siamo, un articolo: Io - ho - il (piacere di conoscerti). È un’aberrazione comunemente accettata e usata, nel lessico orale. Il filo bianco, però, mette la vittima dello shopping di fronte all’aberrazione dell’aberrazione, in un doppio salto mortale:
“Piacere di esserti utile (io ho il)” è un abominio sintattico, una deviazione forzata dalla strada maestra della lingua italiana. Non solo non appartiene ai convenevoli già noti (primo salto), ma viene cucito su una superficie piana e vivace quanto un faro anti-nebbia. Per iscritto, dunque (secondo salto). E scripta manent, avete presente?

Il nostro sindacalista, affrontando temi di tutt’altra entità, qualche giorno fa ci ha detto: «Il cliente non pensa che voi abbiate bisogno di bere, di mangiare, di andare al bagno. Non pensa che abbiate mal di testa, sonno, un’ernia al disco. Non pensa che abbiate una famiglia, una casa in cui tornare; i cavoli vostri, insomma. Per il cliente voi siete lì, ma non esistete. Lo sapete, no?»
Lo sappiamo. Non vogliamo crederci, ma lo sappiamo.
Ecco il motivo per cui odio quello slogan: perché, come recita il dizionario Treccani, “l’aberrare, il deviare da una norma o da un principio, da una legge morale o fisica, da un comportamento che si considera normale”, in un centro commerciale è il pane quotidiano. Nulla è normale. E qualsiasi legge morale, di certo, non vi trova dimora.
Quindi la indosserò, la polo cinese con il glauco motto, che magari si stira pure meglio della camicia. 
Ma sappiatelo:  ogni volta che, lungo la mia spina dorsale curva, leggerete quanto sia un piacere esservi utile io, a volume azzerato, aggiungerò, sistematicamente “Piacere un cazzo.”

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