non leggere









sabato 11 gennaio 2014

ma la scia




Mondare. A questo, tendevo. Nettare la superficie della mia nuova veste e ornarla del buon odore chimico di un non-sapone. Sfregare, solcare la pelle con le unghie, risalendo lungo le tracce brune, per ridare fiato ai pori, alle cellule ancora vive sotto la coltre immobile, sterile, mischiata a quella colla senza più garze cui aderire. Trasformare la terra nera in una nuova schiena, un nuovo polso, nuove coste in bella evidenza.
Ho rimosso i medicamenti, l’ovatta, la mezza valva di un elettrodo, megafono ormai muto del toracico, chirurgico jazz, ch’era sfuggito allo strappo dei cavi. 
E tutti a mimare il dolore! E tutti a lasciare impronte, affinché sia possibile allestire qualche nostalgico dejà vu.

Un catino, colmo di bianco brillante. E quel tanto d’acqua per diluire. E un cucchiaio di legno, di quelli che non si usano più, per miscelare in profondità. E una pennellessa, ampia e con l’impugnatura di legno, per non scivolare.
Ridipingere ogni parete con cura, attenti a non graffiare il muro, a non sbavare, a seguire la direzione della luce. Una mano. Due, Tre. 
Tutte quelle che servono per annullare l’alito degli spiriti; gli spettri albini di cornici, armadi e sofà, impressi su facce e tramezzi caffellatte. Sospesi da anni, in un’infinita posa B di una reflex analogica.

Mondare. Riempire i polmoni.
Fare un bagno dopo due giorni dalle dimissioni, ché non è il male, a fare male, ma la scia.
E infilare la testa sotto il pelo della schiuma, per qualche secondo, mentre l’alito d’etere, la tintura di iodio, l’adesivo nero dei cerotti, finalmente, se ne vanno.

Nessun commento:

Posta un commento