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lunedì 3 febbraio 2014

Giovanni elicotterista



Ha vissuto una guerra, è stato fatto prigioniero dai francesi e dagli inglesi, ha imparato, ben presto, a stare lontano dal fischio delle bombe e dalle sigarette; e a smontare e rimontare un’auto, abilità assai apprezzata, in un attendente. Ha avuto quattro figli e ha sempre portato i baffi. Due virgole sottili, impertinenti, curate con precisione maniacale. Ha affrontato, profugo tra profughi, un esodo umiliante, fatto di spago e cartone, e gatti fuggiti prima dell’imbarco, e oggetti troppo ingombranti da mettere in salvo.
Poi ha fatto il portalettere, per decenni. Impeccabile, preciso, puntuale e rispettato da colleghi, mittenti e destinatari.
Un unico cruccio, tormentava Giovanni: in novantadue anni di vita, un cieco terrore per il vuoto aveva sempre avuto la meglio sulla sua forza di volontà, sul suo coraggio, su quella sua paciosa lucidità, naturalmente votata alla calma e al raziocinio.

Ora affonda le ossa sul materasso di una clinica per lungodegenti. Non si alzerà più. Non tornerà mai come prima.
Le continue ischemie non danno tregua alle sue pupille di fuoco, alla sua memoria, al suo perimetro, a quell’assurda faccenda del tempo. Come fosse quotidianamente sotto l’effetto di un potente allucinogeno, i figli cinquantenni tornano bambini e «Ha mangiato tutto?» e «Hai controllato che non cada dal lettino?». La moglie è ancora viva, giovane e incantevole «Ché avresti potuto fare il cinema, avresti, per quanto sei bella!». La sua sposa è lì, insieme alle sorelle scomparse, alle infanzie perdute, ai commilitoni saltati sulle mine. C’è un tale viavai, in certi pomeriggi!

Ieri, però, Giovanni ha marcato visita. Ha congedato tutti - morti, vivi e agonizzanti - chiarendo che aveva già un impegno.
Ha sorriso, si è vestito ed è partito. Un viaggio incredibile, capace di spazzare ogni incertezza, di redimere qualsiasi industrioso attendente, sobrio portalettere, padre silenzioso. Di cancellare l’onta, lo stigma del fifone.

Ieri nonno Giovanni ha preso l’elicottero e ha volato. Un tuffo senza peso in un immenso, sublime azzurro. In quell’aria sottile e dilatata che pulsa solo tra le cime più alte.
Quando è tornato, posate le cuffie tra la cannula della flebo e il bicchiere sul comodino, aveva un’aria beata. Era felice come un prode falchetto con le ali ancora piene di vento.

A chi lo ha ascoltato, poco dopo l’atterraggio, ha confidato che «Oh, sapessi come è bella, la terra, vista dal cielo!»; ma che no, non avrebbe rinnovato l’avventura, perché «È bellissimo, stare lassù... ma direi che una volta basta!»

2 commenti:

  1. Il mio sogno inconfessato (qualcuno lo conosce in segreto): pilotare un aereo. E grazie alle tue parole sono stata anch'io Giovanni. Bravissima, Ale.

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  2. Grazie, Marì. Anche a me sarebbe piaciuto pilotare un aereo. Amo volare. E il nonno... mi ha dato la polvere! :)

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