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domenica 26 agosto 2012

Cambio. Di stagione. Forse.




Il sole, qui fuori, non può dirsi pallido. È proprio sbiadito, sciacquato nel latte o reduce, chi lo sa?, da un tuffo nel grigio-lavato che resta dentro la ciotola per gli acquerelli. Il vento, aspro e bizzoso, spira da Nordest, ma non è ancora bora. Preme gli scuri contro i cardini cigolanti, fa gracchiare l’esile stendino sull’erba, s’infila tra le foglie di ogni albero frondoso in un sibilo gonfio, per annunciare l’arrivo del nembo. A Sud, il cielo azzurro si svena in smagliature mobili, glauche, stracciate.
Stamattina è piovuto. Un temporale, niente di che. Ma quando arriva a fine agosto, i giochi sono fatti. Tocca ricacciare le infradito, mestamente, in una scatola e sfilare dall’armadio una giacca per la sera.

Domani cambierà qualcosa. 
Nel magazzino di un centro commerciale, la merce viene allocata. Non collocata, cioè situata; né allogata, pur restando il luogo, la radice. Ogni oggetto trova un posto per sé, stipato insieme a molti altri.
Mi sento un collo. E non quella porzione di corpo che sta tra scapole e capo, ma uno scatolone, con la sua brava etichetta, in equilibrio sulle unghie metalliche di un muletto. Resto in attesa che chi di dovere scelga il cantuccio più adatto; alle mie misure, al mio peso, alle fragilità che custodisco, ai miei spigoli.
Sono una strenna color avana dalla destinazione incerta. Con il fiato sospeso.
E li odio - oh, eccome, se li odio! - gli istanti prima della tempesta.

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