non leggere









domenica 12 febbraio 2012

One moment in time


È morta Whitney Houston. A quarantotto anni. Le bacheche dei social network esplodono. Video a profusione, lacrime reali (o millantate perché così fan tutti), dissertazioni su talento ed esistenze decadenti, tributi al genio sprecato. Un’orda barbarica di tuttologi pronti a stigmatizzare, sezionare il cadavere, trarre illegittime conclusioni.
E io non ce la faccio proprio. 
Non riesco a fingere che gli infiniti acuti di I will always love you non mi portassero allo sfinimento, né che le sue prove d’attrice mi sembrassero qualcosa di più che insipide furbate da lancio pubblicitario, per questo disco o quell’altro.
Il sottofondo musicale che, perennemente, invadeva lo studio del mio vecchio medico sgorgava, assai copiosamente e a volume sostenuto, da un best-of della cantante. Al giro di boa della seconda ora d’attesa, avrei potuto vestire i panni del serial killer, sterminatore di vecchietti con il naso a rubinetto e la parlantina sciolta. La sola cosa che riuscivo a pensare, era “Sì, d’accordo, sei brava. E sì, hai un’estensione vocale circense. Ma ti vedrei bene in un pentolone, con il collo tirato a modino, tra cipolle e carote, a far buon brodo.”
Aveva quarantotto anni. Giovane, dunque. Anima fragile? Molto probabile, visto che successo, riconoscimenti, pregevoli collaborazioni, un patrimonio da capogiro e folle oceaniche ai live non sono bastati a sfilarla dalla coazione a ripetere, dalla tossicodipendenza, dalla depressione.
Mia madre ne ha compiuti cinquantasei. Meno giovane, altrettanto fragile, bipolare, fuori di testa, tossica q.b. e, più o meno, ancora viva. 
Ma è sempre stata stonata. Terribilmente.
Quindi, come non detto; mi sa che il confronto non si può fare.

7 commenti:

  1. Te l'ho già detto che ti adoro? non mi ricordo...
    Per sicurezza te lo (ri)dico: ti adoro.

    RispondiElimina
  2. Ale,non ti dico che non hai una qualche ragione. Per quanto mi riguarda non si tratta dei coccodrilli dei social network, ma di umana pietà per tutti, dico tutti/e, coloro che fanno della loro vita un disastro, pietà per l'infelicità umana e per la disperazione che a noi sembra immotivata.

    RispondiElimina
  3. Marì, sai che capisco quello che intendi. Io, invece, so che quando la pietà è reale, come nel tuo caso, è degna di rispetto (il mio lo hai tutto). La disperazione non mi sembra immotivata, ma terribilmente gridata, ostentata fino alla nausea. Detesto i lunghi, drammatici, suicidi annunciati. Ti bacio.

    Penna: eheheh... la cosa è reciproca (ma grazie). Baciopuratté.

    RispondiElimina
  4. Assolutamente in linea con il mio pensiero: tutti vengono ricordati e osannati solo nel giorno in cui non ci sono più. Grande, Ale!

    RispondiElimina
  5. su di lei penso quello che ho scritto oggi su faccialibro. talento enorme e sprecato... resta un unico e solo brivido lungo la schiena quando riascolto "Memories" (Material con Bill Laswell e Archie Shepp...). era sconosciuta a quel tempo e quei padri putativi li ha solo sfiorati... peccato... ha creato cloni e replicanti, anche in terra nostrana... ma non era colpa sua... aveva un mondo intorno che l'ha sfruttata fin che conveniva, per poi abbandonarla... è questa storia che colpisce... il talento sfruttato e vomitato... l'industria mangia e ti mangia... e poi ti sputa, e lei si è fatta cibo... fatta a pezzetti... peccato in tutti i sensi

    RispondiElimina
  6. Verissimo, Fede. Sono sempre più convinta di una cosa: oltre al talento, per navigar certi mari, credo sia necessario possedere una struttura di pensiero più solida del granito. Una forza e una capacità di rimanere talmente curiosi da ricacciare i fantasmi imposti dall'esterno e le ombre autoprodotte. Avidi di mondo come di un puzzle da scomporre, studiare, mangiare. Quando si finisce nel piatto, al posto delle coscette di pollo con il purè, non c'è via di scampo. E sì, è un peccato, specie se il talento, a monte, c'è. :)

    RispondiElimina
  7. PaNduzzo de zia: che te lo dico a fa'?! :)

    RispondiElimina