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martedì 7 febbraio 2012

Deperire ed esperire


È come in-spirare ed e-spirare, immancabile coppia ossigenante - braccia su, braccia giù - di ogni lezione di ginnastica a scuola.
Non amo gli insetti; il mio retino è impolverato, ma praticamente nuovo. Non ho catturato farfalle, ho preso l’influenza. Come? È che ha i fori troppo larghi, quell’aggeggio! Da uno, è entrato il bacillo dell’asilo, meglio noto come “decimatore d’infanti sotto i tre anni”. Da un altro, è passato il morbo dell’uscio scorrevole: si annida nel vento gelido di febbraio, cova nell’interstizio tra le porte semoventi del centro commerciale, si abbatte sulle casse. E sulle cassiere, ovviamente. Da altri ancora, si sono affacciati lo starnuto in sol minore del cliente e “Oh, mi scusi! Sa, i mali si stagione...”, la tosse canina dei nonni nella sala d’aspetto del medico, l’ascensore - per metà carico di germi - al supermercato, la coda in farmacia, sopportata per un’improrogabile astinenza da paracetamolo. 
Oplà!, la generosità delle maglie retiniche, da venerdì scorso ha fatto di me un’ammalata. Un’ammalata curva e dolente, a pochi millimetri dal definitivo tappeto. Sono annientata, come non mi capitava da decenni. 

Quale occasione migliore, dunque, per il mio esperimento? Infilare il termometro sotto il braccio, con il bulbo bene al centro dell’incavo ascellare. Attendere che l’ex mercurio (ché il messaggero dalle ali ai piedi è fuori legge), alchemicamente tramutato in una lega di Non So Che, si sciolga, diluisca, cominci ad allungarsi entro la colonnina di vetro traslucido. Verificare la temperatura raggiunta. 
Trentanove gradi e tre stanghette
Ottimo, ci siamo! Posso finalmente provare l’ebbrezza di stendere pensieri orizzontali in uno stato alterato di coscienza (e senza nemmeno il supporto di additivi chimici). Visioni senza capo né coda. Nausea latente. Sbuffi di colore che scoriandolano ai lati delle ciglia. 
Sembra di stare su un materassino gonfiabile. In mezzo alla laguna. Tra onde fisse, ovattate, congelate in un surreale fermo-immagine. Ha il suo perché, insomma! 
Ogni lettera vergata affoga nel latte del foglio. L’inchiostro svapora, intimamente consapevole della propria inutilità. 
In effetti, non so dargli torto. Non c’è davvero nero che tenga, quando si scrive con la febbre.

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