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mercoledì 26 dicembre 2012

Quel che (abbiamo in) resta




È Santo Stefano. La nebbia, ovatta umida e adesiva, se ne sta impigliata tra i tetti da una settimana. Avvolge i nervi, entra nelle ossa, impasta le ciglia in un’unica rima.
Non importa. Se ne andrà, prima o poi.
Come le renne di Babbo Natale, alacri postine divoratrici di carote già rientrate al Polo Nord; come l’olezzo di fritto, beatamente stiracchiato tra i fornelli, o quello del pesce fresco, smalto traslucido per unghie operaie; come la stizza dei parenti, cablata dalle spire di Meucci, arginata a stento dai malanni di stagione; come le infinite cartoline di auguri, virtuali o di carta spessa, ricevute, inviate o mai spedite.
Tutto il superfluo evaporerà di qui a breve, per fortuna.

Restano lo stupore e la gioia del quasi-quattrenne la mattina del venticinque, esplosi nel trillo cristallino “Mamma! È venuto, Babbo Natale! Guarda quanti regali!” e il sollievo dell’amnistia, ché tutti i capricci, evidentemente, devono essere caduti in prescrizione. Resta la commozione, perché accidenti-quant’è-bravo, a lanciare le automobiline da corsa sulla pista! Resta l’ilarità di dichiarate digestioni in corso giacché il piccolo, con il nuovo fiammante arco, scaglia le frecce contro il bersaglio senza arrendersi mai, “proprio come Robin-Rùt!”. Resta il sapore di frutta cotta nello zucchero, mentre lo guardiamo infilzare la tavoletta forata con tutti quei chiodini colorati. Giallo, rosso, blu, azzurro, arancione, verde... piaceva anche a me, alla sua età, disegnare l’arcobaleno con i funghetti di plastica.
Il cielo è strano, oggi. Nonostante la nebbia sia ancora lì, a filare la tela tra i rami spogli del fico, sta piovendo, finalmente. 
E l’arrosto alle mele è quasi pronto.


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