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domenica 22 aprile 2012

Ocra elettrico




Doveva essere qualche accidenti di rito catartico. Una specie di immersione nel più imo strato della natura, o dell’archetipo umano. Le piaceva stare così, incorniciata dal metallo della porta-finestra spalancata, a godersi il cielo giallo farsi grigio e poi nero. Non poteva evitare di ripetere “farà danni, viene dalle montagne”, giusto un istante prima di allungare i piedi nudi oltre la lunga piastrella di marmo, fin sulle minute losanghe stracotte del terrazzino. Preda di una fibrillazione incomprensibile, “Conta i secondi tra il lampo e il tuono!” trillava, “Sei pronta?” 
Non lo ero. Infilata in un pigiama zero-dieci, detestavo ogni folata, il zig-zag luminoso delle saette, il rombo mortifero di scontri inarrivabili. La mia carne pareva farsi a brandelli, lungo lo scheletro; molecole scomposte dal terrore. Odiavo vederla lì. Avevo tutta la paura del mondo. “Mamma, torna dentro, per favore!” frignavo, ma lei non sentiva. I suoi timpani erano invasi dall’odore dell’asfalto, dai rami sfogliati dal vento cupo e circolare, dal tintinnare sinistro di qualche lattina sui marciapiedi. Con chi parlava? Di chi erano la voce e il profilo cui si rivolgeva puntando lo sguardo tra i nembi? 
No, in realtà non è che odiassi vederla lì: odiavo lei. Perché aveva un corpo vuoto, che se ne stava in un remoto altrove troppo distante dall’umidità della terra. E da me.

Non c’è equilibrio, oggi. Umore mutevole. Perché sono una donna, e meteoropatica, per giunta. Perché piove a gocce grosse e sfacciate, mentre un sole sfinito cerca di allargare uno squarcio tra le nuvole. 
Potrei non essere così nervosa, se solo, dai tetti tra gli orti sino al ponte del duomo, un bell’arcobaleno stirasse la schiena, incurante di quest’orribile, ferale ocra elettrico.

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