Non è la guerra, dalla quale fuggono. Non sono i folli, gli estremisti, gli assassini. Non è la prospettiva di una vita diversa, solo immaginata. È l'irrazionalità, a generare sgomento.
Almeno settecento persone, su una barcaccia malandata; in pericolo, infreddolite, spaventate.
Poi appare una nave, che si avvicina con cautela, per prestare soccorso. E molte, di quelle settecento persone, non riescono a inghiottire il panico. Così si sporgono, tutte dallo stesso lato, all'unisono, ché il terrore è una nota lunga che non si domina, che appartiene all'umano quanto all'animale. Si sbracciano, si agitano, pesano. Pesano troppo. E la barcaccia si rovescia, zattera funesta, come un mezz'uovo abbandonato in una pozza nera.
E non c'è più, il panico.
Perché manca l'aria. Manca il tepore.
E non ci sono più, quelle settecento persone.
Bambini, ragazzi, uomini e donne in fuga dai soprusi, dalla viltà, dalla fame, dall'indecenza della dignità violata.
E non ci siamo più neppure noi. Da quando abbiamo iniziato a scordare tutto. A dimenticare il sapore dell'acqua salata. Quella che, da bambini, per un istante, per sbaglio, ci entrava nel naso. Un secondo prima che qualcuno avesse cura di noi.
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