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domenica 5 aprile 2015

'Ottanta voglia di Pasqua



La credenza di nonna Vittoria cambiava testa. Una merlatura variopinta e crepitante faceva brillare il noce più di qualsiasi straccio imbevuto di Pronto Legno. Fui l'unica nipote per una decina d'anni e non mi è mancata una benedetta profusione di zii, prozii e secondi cugini, ognuno propenso a farmi alzare, con bonomia, il livello di acetone. Cominciavo a chiedere "quando mangiamo?" più o meno alle nove del mattino, mentre la nonna ungeva le mani di olio, pronta a impastare l'impanata di cavolfiori. Non avevo tutta la fame del mondo, specie dopo una colazione a base di biscotti, marmellate, bidoni di latte e Ovomaltina; volevo si archiviasse la pratica del pranzo rapidamente, ché c'era ben altro, da fare.
L'ultima goccia di caffè, sorbita dal commensale più lento, era il segnale di via: l'industriosa squadra di formiche liberava il tavolo, riponeva bottiglie e forchette, asportava tazzine e briciole. Infine s'infagottava la tovaglia, ripiegandone i lembi secondo una liturgia sempre uguale, perfetta.
Il tavolo era ampio e lucido. Lo zio Carlo metteva le mani a conca all'altezza delle ginocchia, con le dita intrecciate, e mi strizzava l'occhio. Le sue mani erano del mio numero di piedi. Mi issava sino alla cresta della credenza e io, furetto agile e lungo, afferravo un bolo dopo l'altro. Mezzo minuto, e il desco pareva apparecchiato di nuovo. E che bel rumore faceva, tutta quella carta di plastica. Fiori, pallini, strisce, pulcini, agnelli rosa e angioletti. Le confezioni erano meravigliose. 
C'era sempre almeno uno zio ardito che, nella covata al latte, introduceva furtivamente un uovo di cioccolato fondente "e però ne mangi un pezzettino solo, eh, ché questo è amaro!". E no, non era mai amaro, ma gli adulti tutelavano il mio stomaco caricandosi l'onere di spazzolarlo, prima che il pezzettino assumesse dimensioni sconsigliabili.
Nastri tubolari dorati, legati strettamente intorno a ciuffi crepitanti. Cravatte sintetiche e infide, impossibili da sciogliere. Nonna Vittoria lo sapeva e, nella tasca del grembiule, aveva già il solito paio di forbici. "Te lo taglio io, gioia mia! Taglio e basta, poi lo apri tu."
Infine il climax: un pugno da comizio, tutto curiosità e fervore, calato dall'alto e di taglio. Una ghigliottina goffa e ingorda, che si abbatteva sulle curve lisce e sinuose di ogni scrigno.
Ciascuna sorpresa doveva vendicare la pochezza della precedente. "Magari trovi una borsetta!", ammiccava zia Paola. "E se ci fosse un puzzle?" ipotizzava Cristina. "Secondo me, sarebbe meglio che ci fosse un altro uovo, dentro!" sdrammatizzava Claudio.
Io collezionavo portachiavi. Quelli, c'erano. A rondinella, con lo stemma della Juve, a orsetto, a caramella. Di qualsiasi forma e dimensione, nelle uova di Pasqua degli anni Ottanta, c'erano sempre e solo portachiavi.
Ed era bellissimo, fingere di stupirsi.


Topodimamma, nelle sue, ha trovato trottole tecnologiche dei Pinguini del Madagascar, Capitan America che spara affari azzurri contro nemici di cartone, una gomma da cancellare a forma di coccinella e una specie di pecora, cucita a mano, di cotone. 

Orrenda. 
Attaccata a un ciondolino di metallo. 
Devo controllare la data di scadenza, di 'sto cavolo di uovo solidal. 

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