non leggere









martedì 21 aprile 2015

Stand straight





Ascolto Jigsaw, in auto, a volume alto, ché diversamente non si deve fare. Davanti, il cancello azzurro e sbiadito del magazzino. Ancora chiuso. L'azienda ha investito un po' di denaro, in mia assenza. Ci sono nuovi striscioni, cartelli bianchi e rossi con il logo e gli orari per il ritiro delle merci.

Non so perché sono qui. Per lavorare, certo. Colli, scatole, involti da stipare, ordinare, aprire, chiudere, spostare. Continuamente. Ottusamente.
Ho sprecato quasi quarant'anni della mia esistenza. Potevo cantare. Potevo scrivere. Potevo fare l'artista. E invece niente. Forse perché è fondamentale accorgersi per tempo della somma differenza che intercorre tra essere o fare qualcosa. 
Questo disco dei Marillion catalizza l'ansia. Non sempre. In alcuni precisi momenti: quando gli arti somigliano a rami agitati dal vento, prima del temporale. Gli acuti e i bassi, le rullate furiose e le armonie struggenti - come solo qualche visionario sognatore può attribuire a un kimono di seta - vibrano. Stordiscono. Trascinano in un gorgo. 
Vorrei avere una mazza tra le mani. Di quelle pesanti da sollevare. Vorrei demolire gli spigoli di ogni tempio eretto per orrore del vuoto. Un vuoto contemporaneo, fatto di necessità non necessarie.
Non ho il nodo alla gola. È più un bolo aspro; un riccio puntuto che scortica le mucose mentre gode nel farsi inghiottire e inghiottire, inutilmente. 
Ieri ero ancora a Lecce. La sabbia gialla e compatta della pietra, delle volute, dei festoni. Brillava contro le merlature blu del cielo. Un cielo terso e profondo spezzato, di quando in quando, dal volo spericolato e perfetto delle rondini. Il centro storico, piazza Sant'Oronzo e il Teatro greco, il caffè in ghiaccio con il latte di mandorla al posto dello zucchero, il gelato al pistacchio, così pieno di scaglie che toccava masticarlo.
Poi nove ore di treno e di pioggia battente, e le lande ampie e desolate della pianura padana sono tornate ad allargarsi indicibilmente.
Probabilmente io non sono qui. Perché non ha senso essere questo. Né trovarsi in un luogo che, in ogni spaccatura di cemento, in ogni timbratrice, in ogni riflesso stanco del sole, sembra ridere del coraggio che non ho avuto, di tutte le strade vecchie onorate a sfavore di sentieri ritorti e possibili, della forza che mi è mancata quando, sotto la fune, non ho avuto la certezza della rete.
Ora ci sono dentro, alla rete. 
Un pesce mal cresciuto, catturato a strascico con altri orribilmente simili a me e, insieme, dolorosamente diversi. 



2 commenti: