non leggere









giovedì 17 gennaio 2013

Chewingum blues



L’occupazione, quest’anno più che mai, pare un chewingum: una robaccia sintetica da non ingerire, ma che si allunga, si lascia plasmare ed è perfetta per ruminare, restaurare l’alito e riempire la bocca di qualcosa. Impastato dalle solite lingue raspose, tutto quell’ipotetico lavoro - ossimoro per sofisti? - pare traboccare oltre i denti sbiancati di glauchi colletti. E sono zanne aguzze, le loro, affilate come asce da quercia. Autobus rivestiti, cartelloni seipertré, manifesti da marciapiede, volantini distribuiti - ne dubitavate? - da volontari (pronti all’agguato dietro ogni angolo di strada), da giorni mostrano incisivi e canini a profusione; accanto a simboli più o meno convincenti, corredati da slogan ruffiani, facili, italianissimi.
Poi c’è l’impiego, quello vero. Che manca al trentasette per cento dei giovani. Che, quando c’è, si fa flessibile, elastico, poco o per nulla retribuito, a tempo, doppio, triplo, carpiato; persino mortale, giusto per non farsi mancare niente. Un lavoro da proteggere e conservare anche quando scapperebbe di cantare un blues, facendo tintinnare la catena alla caviglia; da tutelare dai monsoni della crisi, da salvare a qualsiasi costo, magari sventolando antiche, solidali bandiere, per sentirsi rispondere “Be’, dammelo più avanti, il modulo. Magari mi c’iscriverò al sindacato, prima o poi, se ne avrò bisogno”. 
Il morbo si è insediato. Ha attraversato la pelle dei sudditi, rendendo l’espressione dei loro volti del tutto simile a quella del faraone. E non c’è richiamo alla coscienza che tenga: è impossibile seminare bulbi di gladioli nel deserto.
Le braccia lungo i fianchi, torno sui miei passi, ad auspicare una reale discesa in campo della vetta piramidale; un bel venti-acri coltivato a patate, possibilmente. 
Intanto me ne resto qui, davanti a un seipertré che mi spiega come dilatare meglio i pori, a rileggere 1984, di quella buon’anima di Orwell, sperando di tenere vivi gli anticorpi.

sabato 29 dicembre 2012

Bollywood



Ascolto il tiggì. È quello di Raitre e mi fido. Be’, mi sono fidata spesso, diciamo. 
E mi sa che ho fatto una cazzata.
Ennesimo servizio sulla ventitreenne indiana stuprata dal branco, scagliata fuori dal pullman e, infine, spirata. La chiosa più nera che mai, aggiunge carne al fuoco: ieri, una diciassettenne si era recata in caserma, asserendo di aver subito una violenza di gruppo. I poliziotti l’hanno stuprata a loro volta. 
Ecco. Se fossero le mie figlie, queste disgraziate, credo mi augurerei di raggiungere il comando in un giorno di lavoro asfissiante, in modo che siano tutti lì, pronti a godersi l’odore della propria pelle che si squaglia, mentre io mi diverto a spargere benzina e fiammiferi accesi in ogni recesso dell’edificio.
Per fortuna, però, vivo qui e con un uomo illuminato, capace di lanciarmi un salvagente ogni volta che rischio di affogare in un mare di populismo terribilmente facile. “È un abominio, quello che accade. Ma fa schifo anche la strumentalizzazione che i nostri media mettono in atto. L’Italia ha una questione aperta, con l’India, per via dei due marò... in tutto il Medioriente ci sono situazioni incredibili. Hai presente le donne sfigurate con l’acido? Quando mai ne sentiamo parlare?!”. 
Ha ragione. Quanti stupri sono passati sotto silenzio, sin qui? Perché? E perché l’autobus sul quale è avvenuta la “prima” violenza stava attraversando dei posti di blocco? Quante cose non sappiamo di una realtà così lontana, tutti presi dal giudizio da tasca che ci portiamo sempre appresso?
Noi, con la nube nera del vaticano sulle spalle, un ex primo ministro affamato di ragazzine (e che ha il coraggio di ripresentarsi, come le paste della prima comunione), gente che s’infila in caschi cornuti sventolando bandiere celtiche, manichini che scendono in campo, salgono in politica o svoltano ovunque pecunia li porti e innumerevoli altre esilaranti amenità, dovremmo imparare a fare un paio di cose: capire, aprire gli occhi (il terzo incluso) prima di dare aria alla bocca; e sforzarci di tracciare un perimetro limpido, prima di dare fuoco alle caserme. 

Ho spento la tv. E il tiggì non era ancora finito. 
Sono un'autentica rivoluzionaria da divano.

mercoledì 26 dicembre 2012

Quel che (abbiamo in) resta




È Santo Stefano. La nebbia, ovatta umida e adesiva, se ne sta impigliata tra i tetti da una settimana. Avvolge i nervi, entra nelle ossa, impasta le ciglia in un’unica rima.
Non importa. Se ne andrà, prima o poi.
Come le renne di Babbo Natale, alacri postine divoratrici di carote già rientrate al Polo Nord; come l’olezzo di fritto, beatamente stiracchiato tra i fornelli, o quello del pesce fresco, smalto traslucido per unghie operaie; come la stizza dei parenti, cablata dalle spire di Meucci, arginata a stento dai malanni di stagione; come le infinite cartoline di auguri, virtuali o di carta spessa, ricevute, inviate o mai spedite.
Tutto il superfluo evaporerà di qui a breve, per fortuna.

Restano lo stupore e la gioia del quasi-quattrenne la mattina del venticinque, esplosi nel trillo cristallino “Mamma! È venuto, Babbo Natale! Guarda quanti regali!” e il sollievo dell’amnistia, ché tutti i capricci, evidentemente, devono essere caduti in prescrizione. Resta la commozione, perché accidenti-quant’è-bravo, a lanciare le automobiline da corsa sulla pista! Resta l’ilarità di dichiarate digestioni in corso giacché il piccolo, con il nuovo fiammante arco, scaglia le frecce contro il bersaglio senza arrendersi mai, “proprio come Robin-Rùt!”. Resta il sapore di frutta cotta nello zucchero, mentre lo guardiamo infilzare la tavoletta forata con tutti quei chiodini colorati. Giallo, rosso, blu, azzurro, arancione, verde... piaceva anche a me, alla sua età, disegnare l’arcobaleno con i funghetti di plastica.
Il cielo è strano, oggi. Nonostante la nebbia sia ancora lì, a filare la tela tra i rami spogli del fico, sta piovendo, finalmente. 
E l’arrosto alle mele è quasi pronto.


martedì 18 dicembre 2012

Pufffffff




E poi, qualche volta, succede di accorgersene. Persino a me. 
Già, perché io sono un’idiota doc. Una di quelle che, raccolta una serie di dati, si costruisce un’opinione granitica, e chissenefrega se le informazioni sono parziali o confuse o, addirittura, fraintese. Mi capita di sputare sentenze; e di provare una certa ebbrezza da fiera convinzione di consapevolezza. È come se ci fosse una specie di aerostato, gonfio di gas letale, sul quale issarsi per prendere quota. E salire e salire. E piantare occhi e indice verso qualcosa o qualcuno, mimando pose da irati dèi con l’anatema in punta d’unghia.
E poi Boom!, lo zeppelin si fessura e, in un istante, esplode; ché la caduta ha da essere verticale, rovinosa e storica.
E lo è, per fortuna.
Ho sbagliato. A presumere e prevedere. A stizzirmi e giudicare. A credere di essere nata con le soluzioni in tasca. A presentarmi, con il mio naso all’insù, di fronte a chi, da anni e con la perizia di uno sminatore, si arrovella intorno a infidi gineprai, forandosi le dita, sfilando le vesti all’ennesima tenace spina appena scoperta.
Il contenuto delle mie tasche era un flop. E l’umiltà mi fa talmente difetto che non sono ancora riuscita ad ammetterlo.
Figuriamoci a scusarmene.
Ma provvederò. E capirò che non serve mordersi la lingua, perché non esistono argomenti tabù; solo persone che amano i palloni gonfiati o che, semplicemente, tali sono.
Puffffffffffff.

mercoledì 5 dicembre 2012

Dear Babbo, We have Quellarobalì




Caro Babbo Natale, 
quest’anno la letterina te la scrivo per punti, così magari è più semplice da leggere e trasformare in magia. 
Lavoro al centro commerciale. E no, non cominciamo: non sono una cassiera. La faccio. Produco scontrini insieme alle altre donzelle con la camicia bianca e il muso lungo. Ebbene, We have a dream, dear Babbo, che cercherò di descrivere qui di seguito.
Visto che l’anno scorso non c’è stato verso, questo Natale, se puoi, donaci un cliente che:

1. 
non raggiunga la cassa con l’orecchio fuso al cellulare, impegnato in una conversazione talmente fitta da non riuscire a spiccicare neppure uno striminzito “buongiorno”, mentre noi gli si fa il conto, gli si riempiono le sporte di ammennicoli dorati e lo si manda - sommessamente e sorridendo - al diavolo.

2. 
non chieda, per tutte le stelle del firmamento!, di provare le lucine per l’albero; perché il banco-prova è accanto alla porta d’uscita e una stramaledetta presa di corrente, alla cassa, non c’è. O non si può usare, ché la Grande Distribuzione ci guarda.

3. 
non abbandoni sul tapis-roulant, stizzito, una quintalata di asciugamani rossi da bidet, tutti renne ricamate a punto croce, unicamente perché ci siamo permesse di spiegargli che le sporte le abbiamo solo di carta e costano, rispettivamente, quindici centesimi la piccola, venti la grande.

4. 
non pretenda di entrare dall’uscita perché “ma mi serve solo un set di bicchieri, quello che è lì”, o “ma io sono anziano!”, o “mica devo comprare un elettrodomestico”, o “Ma neanche a Natale, che si è tutti più buoni?”, o “E devo fare tutto il giro?!”. Perché sì, devono farsi tutto il giro. È il primo comandamento di ogni centro commerciale. Anche a Natale. E loro lo sanno. Quindi se lo facessero, il giro. Se non qui, in Lapponia. 

5. 
non faccia il solidale mentre, la domenica del ventitré dicembre, intasa la coda delle cinque con un separa-uova nel carrello - strenna al fotofinish per la zia Norma - dichiarando che “è una vergogna che vi facciano lavorare anche domani”. Tanto glielo si legge in faccia: fosse per lui, trascorrerebbe il pranzo di Natale abbarbicato allo scaffale dei cucchiai, aspettando che qualcuno gli chieda “In cosa posso esserle utile, signore?”, già pronto a gracchiare un sonoro “A-haaammm!”

6. 
non ci chieda consiglio sul colore del mobiletto per il bagno, né sulla panca porta-oggetti con l’effigie degli elfi. Abbia il coraggio delle proprie azioni e se la veda da solo, con la moglie-mastino che lo attende a casa, al varco. Ché noi, il dito, lo mettiamo solo sul touch-screen.

7. 
non chieda se possiamo fargli un pacchetto: non lo facciamo. Ci manca solo quello! E niente perché e percome: dopo nove ore di bip-bip, potremmo anche evitare ogni censura e chiarire, una volta per tutte, che è il sette dicembre e, fino al ventiquattro, ha tutto il tempo di trovare una stronza cartoleria aperta.

8. 
non abbia infiniti natali da raccontare e la lingua sciolta. Ci piace sguazzare nell’ignoranza, specie quando dietro di lui ci sono altre ottantadue persone in fila, capaci di una potenza sbuffatoria pari a quella di tutti i treni a vapore di Ivano Fossati.

9. 
non pretenda, soprattutto un minuto dopo l’apertura, di pagare un addobbo pralinato da novantanove centesimi con una banconota da cinquecento euro. Non siamo gnomi dell’arcobaleno. Non abbiamo trascorso la notte a trasportare carriole di monetume, dalla banca ai nostri cassetti, per soddisfare pazzoidi con un deposito vuoto e un costume da Paperon De’ Paperoni nell’armadio.

10. 
non ci faccia gli auguri di buone feste. Non ci venga proprio, qui, dal quindici del mese all’otto gennaio. Se non può farne a meno, ci pensi intensamente la notte dell’Avvento, mentre trangugia un frizzantino e affonda le fauci nel panettone. E si senta un autentico genio, d’una furbizia da sfoggiare al cenone, per aver snobbato il centro commerciale. Mica è un’abilità comune, in effetti, evitare di rompere le palle a chi lavora. Figuriamoci quelle di Natale.



Tanto lo so: come minimo Babbo non parla inglese, quindi non ha idea di cosa significhi che We have a dream.


giovedì 22 novembre 2012

Carte... scoperte




Suona il telefono. Rispondo. È mio padre. 
Come stai? E il lavoro? E l’acqua, è ancora alta? Certo che i politici son tutti ladri... l’hai sentita l’ultima? 
Chiacchiere sul quotidiano. Il piccolo sta disegnando sul tavolo della sala. Qualche dinosauro “con il pippi”, probabilmente, ché in questo periodo vanno via come il pane. Io sono in cucina. Faccio conca con la spalla per accogliere la cornetta, finché la cicca non è accesa e il fumo esce, placido, oltre la porta che dà sull’orto.
Sento alcuni rumori, di là. La sedia alta di legno che si sposta, piccoli passetti in fuga, la porta del bagno che si apre. Poi acqua che scorre.
Alcuni minuti dopo, la porta sbatte, la luce del corridoio fa click, i passetti si avvicinano. Topodimamma sbuca all’improvviso, con lo sguardo fiero e l’occhio vispo: «Mamma! Ho fatto la cacca! Ma sono stato bravissimo, e mi sono pulito da solo!».
Giubilo! Orgoglio! Stupore! E panico...
«Ehm, amore! Sei stato davvero un fenomeno, ma cosa ne dici se diamo una controllata, laggiù, per vedere se è proprio tutto pulito-pulito?»
Mio padre, in presa diretta sull’evento, se la ride in viva-voce. 
Tornati in bagno, inizio a ispezionare la zona dell’ipotetico patatrack. Ma non ci sono tracce di disastro! Solo una pallina di carta igienica, rimasta intrappolata in quel compatto, adorabile paio di chiappette. Il Topo la estrae bellamente, solleva il braccio in alto ed esplode: «Nonno, guarda qui! È solo una pallina! Hai visto che sono stato bravissimo?!»
Eh, potere del viva-voce: materializza il senso della vista anche senza video-telefono.
Mio padre si sganascia fino alla tosse. 
«Ma allora, furbetto, dov’era, ‘sta pallina?»
«Ma dài, nonno! Nel culo, no?!»
Ecco. Avrei dovuto cedere alla pigrizia, astenermi dal realismo e insegnare a mio figlio che, quello che ha lì dietro, si chiama “sederino”.
E comunque, sederino o culo che sia, è ben aggrappato a una struttura ossea solida e flessibile. E lunga. Lunghissima. Mi è cresciuto sotto il naso. 
E sì, accidenti! È bravissimo.

domenica 21 ottobre 2012

Sassi




Lasciarsi strozzare dal magone, far prevalere l’indignazione - impalpabile, bianca, stoica quanto lo zucchero a velo sulla focaccia bollente, affogare un gesto in un magma collettivo sino a renderlo pappa per palati molli, è facile. Comprensibile, magari; ma vacuo. Sciocco. Roba per gente pigra.
Noi umani, animali dotati - per quanto spesso refrattari - di pensiero, abbiamo comunque bisogno della forza. Di quella linfa vitale che ci permette di compiere ogni atto, ogni movimento. Altrimenti saremmo pietre. Sassi lisci o bitorzoluti, minerali inerti. Il guaio è che la forza può farsi eccessiva. E divenire impeto. Follia; poco conta se opaca o lucida. O violenza. Ché il vigore sa lievitare in pre-potenza. Un dominio inarrestabile fatto di nocche, lame, mutilazioni, fiamme, proiettili. E bicchieri, sempre gli stessi, rotti mille volte, mai sepolti.

Anche le donne sono violente. Alcune sanno scegliere parole capaci di annientare, torturare, annichilire. E mica tutte pesano cinquanta chili, o non raggiungono il metro e sessanta! Ci sono armadi-femmina a otto ante - in grado di abbattere un maschio come nemmeno una mandria di bufali, che non si limitano alle aggressioni freudiane.
Di solito, però, capita il contrario. È lì, il problema. Non nella questione “di genere”, ma in quel necrotico, asessuato “solito”. Ci siamo ridotti a credere che l’imposizione, l’offesa, la ferita, siano pallide tracce della consuetudine. Un’usanza becera, truce. Ma-tanto-poi-passa.
Fino alla prossima volta. 
Perché gli uomini che uccidono le donne sono maschi, certo. Ma anche individui. Persino figli. Di padri con la testa quadrata, forse. E di madri - donne! - troppo impegnate a proteggere giardini di ortiche. 
Il problema è il "solito". Perché anche noi siamo i soliti. 
E le solite.

venerdì 12 ottobre 2012

Gomma



Ecco l’indignazione. La solita, maleodorante muffa di chi simula cecità; che, di quella finzione, pare aver fatto un mestiere. Ecco le voci straziate e gli indici rigidi, puntati contro un poliziotto dai modi bruschi, indecenti. Ecco il caso giornalistico, carogna fumante sulla quale adorano gettarsi le iene della carta stampata - con l’editoriale sentenzioso in tasca, gli zoom invadenti, i canini affilati e coperti di bava vischiosa - acquolina mefitica a contar gli incassi. 
Ecco il folletto dell’oblio che, nel pieno rispetto delle consegne ha sfilato senno e memoria, per l’ennesima volta, dalla testa della gente.

Di figli dalle braccia di gomma è pieno il mondo. Arti elastici, tirati sino a smagliarne la sostanza. È pieno il mondo di ex mogli ed ex mariti che, pur di risultare vincitori, non esiterebbero a strapparle dal tronco, quelle amabili braccia. Perché lo strazio è invisibile, così come gli occhi sbarrati del testimone. Perché da tempo, per quel trofeo indivisibile, è stato fatto spazio sul ripiano più alto delle recriminazioni. Finché i denti del figlio, il volto bocconi contro il suolo, non affondano nella terra. Perché il gioco è irrefrenabile; va portato sino in fondo. Persino oltre il filo bianco che, ferale, si leva dalla candela spenta, muta come non mai. 
O come sempre.
Di figli dalla braccia di gomma è pieno il mondo. Oppure no. 
Ché le case della gente, fatte di mattoni, ipocriti da rouge e noir, silenzi solidi e dissimulazioni, si sa: neppure il lupo più abile, grosso e irsuto, riesce a soffiarle via.

giovedì 4 ottobre 2012

Autumn leaves




L’altro ieri ho comprato i primi cachi. Sguardo al calendario: ottobre. 
È che i ritmi frenetici, le telefonate ferali - raccolte e mancate, i temporali nostalgici e le maniche corte mi avevano distratto. Per carità, l’orecchio già da un po’ poteva dirsi orfano di risate cristalline tutte alito e anguria, del tintinnar di palette e secchielli, di cocchi strillati e brrrip-brrrop di braccioli sdrucciolevoli. Ma me ne stavo lì, ad attraversare le giornate con il foglio dei turni appeso al frigo, i soliti pantaloni addosso, la lista della spesa nella tasca esterna della borsa.
Poi ho riposto i sandali e le scarpe di corda, in favore di calzature chiuse e gommate; ho sfilato dall’armadio la giacca di pelle; ho guardato il cielo abbassarsi, scuro e stellato dall’ora del tè. E oh! Quelle maledette foglie! Rosso, marrone, giallo, arancione... Avrei dovuto capire, no?!
Niente. Non pensavo a niente. Testa svaporata e quotidianità da allestire.
Stamane, lo schiaffo.
“Fa’ colazione!-scappa pipì?-dài, co’sti denti!-lo zainetto è sulla sedia-papà ha già i piedi nelle scarpe...-lo so che c’hai sonno-infila il giubbino!-andiamo con il monopattino?-presto, ch’è tardi!”. Poi, la porta d’ingresso: scatto della serratura, lamento dei cardini, swosh del para-spifferi, luce.
Luce bianca. Diffusa. Lattiginosa. Umida.
«Mamma! Perché c’è la nebbia, stamattina?»
«Amore, dobbiamo farcene una ragione, temo. Siamo in autunno!»
«E perché?»
«Perché tutte le cose finiscono, prima o poi...»
«Come la marmellata?»
«Esatto. Ehi! Corri più vicino al muro, ché non ho voglia di venire a pescarti dal canale!»
«Ma tanto è bassa!»
È vero. Lo scirocco non si è ancora fatto vivo. Salvi dall’acqua alta! Per ora, almeno.
«Nano! Vi-ci-no al mu-ro! Insomma, come te lo devo dire?!»
«In turco, mamma?»

Eh. Mi sa che devo rimettere in moto il cervello. E starci attenta - mannaggia a me! - con ‘sto vizio delle frasi fatte.

giovedì 27 settembre 2012

Il lavoro del cavolo




Il periodo non aiuta. Un tempo esiziale, ragnatela infida appesa tra le foglie brunastre insultate dal vento. E, insieme, contingenza funesta nelle piazze, disertate dai consumatori, consumate dalle suole lise dei precari, dei cassaintegrati, dei disoccupati. Starsene appollaiati sul ciglio di questo abisso è un privilegio. E va da sé: qualsiasi lamento, sputato o sommesso, pare una bestemmia. Io ce l’ho, un lavoro. Un impiego che - addirittura! - non somiglia nemmeno più a un latticino a lunga conservazione: non scade. Giubilo e gioia a profusione, dunque! Eh, più-meno-che-più.
Il guaio è che dovrei avere la mano ferma. Maneggiare la bomba con cura, salvaguardare gli astanti invitandoli ad allontanarsi lentamente, far brillare l’ordigno senza spargimenti di sangue. O di parole riottose. O d’indignazione viscerale.
Con quale coraggio potrei dire a un mancato-pensionato del ‘52 che la permanenza può somigliare a un cappio? O a un neo-laureato con, in tasca, un biglietto per Berlino, che le garanzie, le certezze, la routine, rischiano di trasformarsi in coazione a ripetere?
Non ce l’ho abbastanza di bronzo, la faccia. Nonostante io abbia un odore diverso, una differente fame di luce, una forma tutt’altro che ovoidale: una spirale infinita, frattale, aurea.
Nonostante io sia un cavolfiore, ecco. 
Malamente piantato in un campo di patate.
Stinto. Accerchiato. 
In preda a una nausea furibonda.