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martedì 8 maggio 2012

Campioni!




Si era a digiuno da un bel po’, noi zebre. A lingua in fuori, abbiamo vagato a lungo per ampie e aride steppe virate al nerazzurro o, peggio, con il cielo tinto di rosso, a far da contraltare alle amabili righe nere. Battutisti scatenati sui social network (una su tutte: “30 scudetti per gli juventini, 28 per la questura”), crisi mistiche ai bar dello sport, infinite code di iettatori, impegnati sino all’ultimo istante, nulla hanno potuto contro l’imbattibilità sul campo della vecchia Signora. 
Lo so, sono una donna, e adulta, oltretutto. Sono perfettamente consapevole di quanto marcio ci sia in Danimarca. Il calcio-scommesse, la Calciopoli tutta - piena zeppa di bande Bassotti, arbitri prezzolati, pay-tv e nandroloni... non vivo sulla luna. Deprime anche me, questo truffaldino, ridicolo circo. 
Ma io sono una tifosa da album Panini, immersa nell’antica poesia del ce-l’ho-manca. Lo zio preferito, gobbo fino al midollo, dopo il “papà” e il “mamma” d’ordinanza, mi ha insegnato a pronunciare la terza parola: “Forzajuve”. I miei tre migliori amici, alle elementari, avevano nomi normali e tifavano per squadre normali, oneste e quadrate: Carlo per la Roma, Sandro per il Como e Mario per il Napoli. Quando la Juve perdeva, andavo a scuola vestita di nero, prona, schiacciata dal nembo del lutto. Qualche volta, persino, rimanevo direttamente sotto le coperte, per non subire l’affronto degli sfottò acidi e compiaciuti dei miei compagni.
Alle bambole e ai giochi pacati e noiosissimi delle bimbe, preferivo la competizione bonaria, robusta dei maschi, tra un fallo da ultimo uomo e una rimessa laterale. La conta tra i due capitani, la lista delle squadre, la speranza di non essere mai l’ultima scelta, che sennò si capisce che sei una pippa con il pallone sui piedi. Il rispetto pesava come piombo, giù al campetto. Eravamo piccoli guerrieri pieni di fiato e fiducia. 

Lo scudetto è nostro, belli miei.
Non rompetemi l’anima: chissenefrega dei quattro bambocci milionari e viziati, che per mestiere corrono, in mutandoni, dietro a una palla! Siamo noi, i campioni d’Italia! Noi che avevamo il poster gigante sopra la testiera del letto, con i bei faccioni di Cabrini e Platini, noi che rosicchiavamo le unghie fino alla carne, per una finale di Coppa Campioni (altro che Sciampionslìg!), noi che, bandiera sulle spalle, pattinavamo lungo il corridoio incerato di casa per un quarto d’ora, dopo un gol di Laudrup.

Si è persino coniata la formula “calcio giocato” per distinguere l’italico passatempo più amato e praticato della nostra storia dalle furbate dei corrotti. Ebbene: che milanisti, interisti, romanisti e compagnia blaterante trascorrano pure il proprio tempo a dissertare su quello che pare a loro.
Da qui in cima, con un sorriso beato stampato sui denti, non ci resta che fare spallucce, girare i tacchetti e continuare a canticchiare “I campioni dell’Italia siamo noooi!”

1 commento:

  1. Omaggio alla tua prosa. Ho smesso di essere interista fine anni sessanta o inizio anni settanta. L'inter perse una finale contro la Juve e uscii con uno straccio nero intorno al braccio.
    Dopo ho continuato per un po' con la foto di Gigi Riva attaccata allo specchio interno dell'armadio. Avevo capito che mi piacevano i giocatori, non il calcio. Brava tu, però.

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