non leggere









giovedì 19 luglio 2012

Inno alla ghiandola




Il supermercato è uno specchio perfetto dei tempi che corrono. Al reparto cosmetici, intere file di braccia metalliche, sottili e cornute, sorreggono ogni ben di dio. Eccole, appese come foglie morte, le solette all’eucaliptolo; giusto un palmo sopra i barattoli di talco del Dottorsciòl, circondati da infinite scatoline di podologici antimicotici e antibatterici. Altre due gracchiate di carrello e ci si ritrova di fronte all’immancabile parata di dentifrici sbiancanti, contro la carie, il tartaro, le gengive retrattili, l’alito mefitico. Se siete donne, vi tocca persino il tour verso l’angolo del pianto, cui dovete recarvi in pellegrinaggio almeno una volta al mese. Lì, ravanerete tra pacchi da dieci, dodici o quattordici tamponi, micro-forati, alveolati, con o senza ali, piccoli, medi, lunghi, extra-flusso - che ci sono ma scompaiono - esterni, interni, con cavatappi, sintetici, ripiegati o distesi e, direttamente dall’ultima frontiera delle scienze assorbenti, dotati di naturactive, dispositivo per il controllo dell’odore (e non si tratta di una minuscola guardia armata da piazzare negli slip). 
Pur non essendo ancora prede, fortunatamente, della sindrome pre-mestruale, potreste comunque avere una questione aperta con le vostre ghiandole sudoripare e aggirarvi, schiave dell’ultimo spot o delle sempiterne pippe bio, nell’area più pericolosa del negozio: la profumeria. Allume di potassio - in grani, blocchetto di pietra, spray - per le fricchettone con la borsa di tela; Altolà-al-sudore per le potenziali vittime di rapina, sempre a braccia alte e ascelle escalamtive; creme anti-traspiranti per chi, i liquidi, vuol tenerseli tutti per sé; nebulizzatori rispettosi dell’ozono per le amanti della natura, ostili agli erogatori troppo aggressivi.
È estate, ci sono quaranta gradi all’ombra e un’afa da bagno turco, ma l’imperativo resta uno solo: vietato puzzare. Gli umori corporali vanno banditi, sepolti, messi alla berlina, ché mica viviamo ancora nelle caverne, per Diana! La prova olfattiva va superata a ogni costo, e guai a voi, se vi si becca con un qualsivoglia alone umidiccio sulla camicia!
Ebbene: dovrebbe esserci una sostanziale differenza tra igiene e follia. O no?
Vi svelerò un segreto. Esiste una cosa magnifica chiamata sapone. Si usa mischiandolo all’acqua e detergendo la pelle abbondantemente. In giro per il pianeta - ci credereste?! - ne esistono interi alberi. Se ne farete uso quotidianamente potrete affermare, senza tema di smentita, di essere mondi, lindi, puliti. Per il resto, fatevene una ragione: siamo esseri umani, fatti per il per settanta per cento di acqua, pieni di denti, piedi, interni-coscia, sebo sul cuoio capelluto. E pare che sudare, per ora, non sia reato.

martedì 3 luglio 2012

Aspirazioni




Com’è liberatoria, la semplicità di alcune parole. In particolare, amo quelle immerse nella funzione che rappresentano, capaci di preservare i dizionari etimologici da pieghe moleste e dita umettate, e in grado di accoppiarsi con altre a loro simili, germogliate sotto il medesimo, salvifico raggio solare. Ecco l’acchiappa-farfalle, il pungi-topo, la lava-asciuga, i perdi-giorno. Probabilmente è tra queste ultime lettere che preferisco sostare. Testa svaporata, iridi vacue, sovra-pensiero latente adagiato su qualche particolare apparentemente insignificante, quotidiano, silenzioso. 
Nella piccola stanza da bagno del piano di sotto non c’è la vasca; neppure il piatto doccia, se è per questo. Ricavato da un sotto-scala, questo spazio è una piramide sbilenca, ma confortevole. Raccoglie i pensieri della sera e gli sbadigli dell’alba. 
Accanto alla tazza, come un fungo, si erge il lavandino. Quasi piatto, minuscolo, bianchissimo (be’, non proprio sempre). Appeso sull’alzata di un gradino di legno, un ampio porta-bicchiere abbraccia, in realtà, un phon color malva. Una mensola d’abete, smaltata di nero, sorregge spazzolini, dentifricio, filo interdentale, lo smeraldo del colluttorio, deodoranti per lui e per lei, l’immancabile confezione di stecchini pulisci-orecchi. La schiena contro le piastrelle antracite della parete opposta, smilzo e glauco, il termo-sifone a tre elementi sonnecchia, ben protetto da un copri-capo umido di spugne abrasive e lucidanti. Ai piedi, invece, sbavato di blu, il gel disinfettante pare un soldato appena rientrato nella seconda linea, vivo per miracolo.
Stamattina niente Settimana Enigmistica, nel momento del bisogno. Ho le palpebre a mezz’asta. Dormito male. Incubi. Caldo-freddo-caldo-freddo ad libitum. E i gabbiani, prima del sorgere del sole, a cincischiare e gracchiare e svolazzare e sbecchettare, così forte da svegliare l’intero vicinato. Saranno riusciti ad aprire il solito sacco del pattume pieno di leccornie semi-ammuffite (i pennuti, non i dirimpettai).
Dicevo: caselle bianche, caselle nere, cornici concentriche e ghilardate? Nel cassetto. Sclere arrossate, pupille fuori fuoco, ciglia impastate dall’elisir di Morfeo, non potrei leggere, neppure a mo’ di tortura. L’occhio però, appannato e liquido, riesce comunque a cadere ad altezza pavimento. Anzi, un po’ più su, a dire il vero: un grosso, lucido scarafaggio meccanico giace immobile a terra. Un insetto rosso scuro, dalla lunga proboscide argentata che termina in una mono-narice gigante, nera, piena di vibrisse prensili. L’ho presa dell’Ariete, stavolta. Avevo un buono-sconto da spendere nel negozio in cui lavoro. Mi serviva proprio; ne è testimone la scopa scapigliata che, dall’ameno angolo di sua proprietà, mi guarda in tralice da anni.
Aspira-polvere. Ah, adorato assemblaggio di ventole e filtri e tubi e ruote e cavo avvolgibile e presa tedesca! 
Questa casa, palafitta meravigliosa con le zampe affondate nella laguna veneziana, trasuda sale e colleziona micro-particelle volatili più sottili del pm10, ma più numerose dell’intera popolazione mondiale. Senza aspira-polvere mi sentivo persa, sommersa da mute canine, pollini, pelucchi. 
Che poi, l’aspira-polvere è un lui o una lei? Inizia per “a” quindi l’articolo indeterminativo non aiuta, ché l’apostrofo se non c’è, non c’è; ma se c’è, s’infratta! «Per cortesia, mi saprebbe indicare un(’)aspira-polvere davvero potente?». È un elettro-domestico! Sarà maschio! D’accordo, ma se ci limitassimo al fatto che è una macchina, non scatterebbe l’attraversamento del valico di genere? 
Non se ne esce. In ogni caso, io l’ho sempre considerata femmina, forse perché raramente l’ho vista usare da un essere umano appartenente al sesso forte. La mia, di sicuro, ha l’apostrofo rosa.
Quando è accesa, fa il suo dovere a meraviglia: spazza, risucchia, fagocita, digerisce. Non è neppure schizzinosa! Briciole di mattoni, capelli, persino ragni o altri cosi non meglio identificati, dotati di troppe zampe per somigliare a noiosi bipedi o a scodinzolanti quadrupedi. Finito il lavoro, torna qui nel sottoscala, a fingersi morta.
La guardo. Qualcosa non torna. Osservo più intensamente, remando contro le cispe. Non è poi così lucida. Per carità, il colore vivace, là sotto, c’è ancora, ma appare velato, offeso. Sull’aspira-polvere si è formato uno spesso, soffice, grigissimo strato di sozzura. Di limpido è rimasto solo il manico o, per lo meno, la porzione di plastica definita dall’impronta delle mie dita.
Si possono fare ragionamenti pseudo-filosofici, al cesso e, per di più, di buona mattina? Il medium grazie al quale superfici orizzontali e verticali di questo posto sono linde è lurido. Fa fatica, s’ingolfa il mono-polmone, scalda le stanze - più di una stufa a gas - per liberare tutto da immondi depositi, e lei? Sporca da fare orrore. È così che va. Le aspirazioni costano, che vi credete?! Una logica da ossimoro, un destino infame; ma l’aspira-polvere è come uno Zero Negativo: dona a tutti, ma può ricevere solo da un suo simile. 
Due strappi di carta igienica. Sciacquone. Tavoletta giù. Spazzolino. Gargarismi. Sputo. Prelevo dal copri-capo del termo-sifone la spugna verde, quella morbida a nido d’ape. Apro il rubinetto. Lavo, strizzo e accarezzo. Lavo strizzo, accarezzo. Lavo, strizzo, accarezzo.
Torna come nuova.
Io sono uno Zero Positivo. Non mi sarei mai messa carponi a sniffarle la schiena. E non ho neppure la proboscide, lo dico per amor di precisione.
Ma è l’alba. L’inizio anomalo di un giorno nuovo. Il primo giorno in cui, all’improvviso, ho scoperto di essere una monda-aspira-polvere.

martedì 5 giugno 2012

Italia Pulit...a..ah..ahahahahahahah!




Più che all’ordine, sembra si tratti di un ritorno di fiamma per la famigerata casalinga di Voghera. Ecco perché la deceduta Forza Italia - e, con essa, l’antico scippo ai tifosi della nazionale - triturata nel macina-carne improduttivo del Pdl, pare sia pronta a rinascere dalla proprie ceneri, araba fenice cialtrona, nelle nuove, linde vesti di “Italia Pulita”. Forse rapito da un moto di nostalgia per i bei tempi andati, quando i pool antimafia andavano a caccia di mani luride da mondare - ché pecunia non olet, ma a’ voglia se insozza! - con evidente sprezzo del pericolo, il noto vecchietto si è seduto sul consueto trono (sì, è suo pure quello, ma non parlo del seggiolone di Uomini e Donne versione âgé) e, con il sempre fedele Dell’Utri (ehm... sì, proprio quel Dell’Utri) ha sfornato il gioioso brainstorming. Appena centrato il nome, si è aperta la questione “facce”. 
- Bene, chi ci mettiamo, Marcellino? 
- Eh, porca merda, Mike, Sandra e Raimondo sono cibo per vermi da un po’... proviamo con delle cere sostitutive? 
- No, dài, sai che io sono un uomo di buon gusto!
- Eh, ho capito, ma scordati le solite smandrappone, che sennò ricomincia il circo, e poi la sciùra Maria non ci vota!
Ma neanche una tetta della Barale?
- Silvio, le tette stanno a zero, occhèi? E pure cosce, culatelli, lonze e via dicendo.
- D’accordo, va bene. Ripeschiamo Emilio?
- Ma che, sei scemo? Ormai quello s’è sputtanato! Pensavo, che ne so, a un Salvo Sottile, un Gabibbo... qualcosa del genere!
- Ce-l’ho! Sei pronto?
- Spara!
- È come un gabibbo, ma meno rosso-comunista. Ha un muso rassicurante, perfetto. Ha la parlantina sciolta e piace alle mamme e alle nonne. È un po' il babbo natale de noaltri. Ha iniziato con uno Smile sulle labbra, è timorato da me e da Dio (che poi è un po’ lo stesso) e pur avendo la bocca piena di riso, lo stronzo cereale non fa di lui un cretino...
- Gerry Scotti! Cazzo, capo, sei un genio!
Lo so, lo so... che dici, l’accendiamo?

martedì 29 maggio 2012

Troppi porcellini




Al piccolo piace la favola dei tre porcellini. Se accompagnata da debito motivetto disneyano, meglio ancora. Ogni santa volta, il più che legittimo quesito scaturisce spontaneamente dalle labbra treenni: «Ma pecché il pimo poccellino fa la casa di paia, ch’è tutta leggera e il lupo la soffia via? E pecché il secondo poccellino la fa sciolo di legno?»
Gli rispondiamo che è la pigrizia, il problema. E che il secondo è un solo po’ meno poltrone del primo. «Un po’ pigo e un po’ no, mamma?».
Esatto.
Dopo un terremoto è la paura, a farla da padrona. Si chiudono le scuole, gli uffici pubblici, persino le fabbriche. Appena l’allarme rientra, però, è necessario rimettere in moto la macchina, far ripartire le attività, dare al lavoro il ruolo di catalizzatore. Per il coraggio. Per la ricostruzione. Per non mortificare ulteriormente i processi economici.
D’accordo. È comprensibile. Ma cosa succede quando la terra trema ancora, di giorno, alle nove del mattino di un qualsiasi martedì?
Capita che capannoni indebitamente autorizzati ad aprire se ne vengano giù come castelli di carte. E capita che, intrappolati in quei castelli, non ci siano principesse isteriche dalle lunghe trecce, ma operai. Tute blu mal pagate, spesso assunte in nero, disposte a rischiare - ché la crisi è crisi, e non c’è spauracchio tellurico che tenga.
Non si muore per un sisma di questa portata. Si muore per l’indecenza degli affaristi, per l’approssimazione dei tecnici, per l’indifferenza di chi va, vede e tace.
Vorrei tanto vederli in faccia, i porci a capo di quelle aziende. Per spiegare loro che persino un assiduo frequentatore dell’asilo sa che le fabbriche non si costruiscono con paglia e legno.

giovedì 24 maggio 2012

Essere. O non essere.




Ero al liceo e, nella mia stanza, ogni superficie verticale era ancora soffocata da un’orrenda carta da parati rosa antico. Ci ho dipinto sopra, ci ho sbattuto contro una quantità improbabile di poster di calciatori e musicisti, ci ho scritto. Oh, grana e grammatura erano perfette, per la collezione di Tratto Pen che avevo nel cassetto! Moniti di poeti, testi di canzoni, appunti per non scordare un pensiero in volo radente. 
Mi perseguitava una parola. Scrissi anche quella, inclusa tutta la sbobba che recitava il dizionario, perché non riuscivo a impararne il significato. 

Ontologia: dal greco òn, il cui genitivo è òntos, participio presente di êinai (essere); insieme a logia, che sta per lògos (discorso, dottrina). Scienza dell’essere, dottrina sull’essere in quanto tale, nonché relativa alle sue categorie fondamentali.

Bene. E che diamine è un ente? Sì, bravi, l’INPS... non parlo di quel genere di ente, ma di "ciò che è qualcosa di esistente o di possibile (in opposizione a ciò che non è)". L’insieme degli enti costituisce l’essenza (scoperta, l’acqua calda?) che, secondo Aristotele, significa "ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un'altra cosa" e sta quindi a indicare quelle determinazioni di un ‘oggetto’, specificate nella sua definizione, che ne costituiscono e determinano la natura.
Tutto chiaro, fin qui?

Io sono
Io sono e, in quanto esistente, potrei ritrovare il mio nome in lunghissime liste di caratteristiche, ascrivibili a decine di categorie diverse.
Ontologicamente parlando, perciò, quando mi definite “cassiera” non siete in errore. Ma è terribilmente divertente vedere le facce che fate quando mi ritrovate al reparto, a sistemare guanciali di fibra d’aloe o aromatizzati alla lavanda. Ed è addirittura esilarante immaginare quali espressioni vi calerebbero sulla fronte, come sipari mortiferi, se sapeste come mi riesce bene la torta al cioccolato, quanti libri lisi e pieni d’orecchie giacciano sulle mie mensole, come mi doni un seghetto alternativo tra le mani, quanti nomi io sappia trovare per definire i sogni belli che aleggeranno, durante la notte, sulla testa di mio figlio.

Ah, dimenticavo! Evitate di filosofeggiare troppo, in uno qualsiasi dei nostri bar. Qui, se l’oste è onto, non c'è Aristotele che tenga: vuol dire che non si lava. Ergo, cambiate bettola, finché siete in tempo.

martedì 22 maggio 2012

Che pizza!




Una cadenza ritmica necessaria, ecco cos’è. Se all’improvviso sparisse, per una semplice distrazione o magari per magia - come il solito calzino nella lavatrice - non potremmo più maledire il lunedì o ingolfarci di cioccolato a Pasqua. Non esisterebbero i cori, in chiesa, allo stadio, nei cortei autorizzati e in quelli abusivi, ché ognuno andrebbe per conto proprio. Nessuna sveglia ci concederebbe altri cinque minuti a letto, prima del caffè e del dentifricio quotidiani. I giornali non si chiamerebbero così, orfani della nozione di giorno. E la notte, per quanto ne sapremmo, potrebbe diventare infinitamente dilatata e nera. I verbi, dieta o non dieta, perderebbero la loro forma ideale; una catastrofe che neppure Moccia sotto LSD saprebbe imitare (lasciando lucchettari compulsivi a chiedersi se, quei tre metri sopra il cielo, sono, saranno, o siano stati davvero tre).
La povera Goggi vagherebbe, raminga, biascicando “Maledetta... maledetta... uff! Quella roba lì!”, giacché la primavera verrebbe tritata in un amalgama indistinto di secchielli e palette, foglie secche e fiocchi di neve. Chi ama la pizza quattro stagioni, tanto per dirne una, dovrebbe arrendersi al disordine stocastico di una capricciosa qualsiasi.
E povero Bergson! Non voglio neppure pensare alla rumba da tomba alla quale sarebbe costretto, se sapesse di una tale sparizione! Quella della pizza? Ma no, che avete capito?! 
È il tempo, il protagonista.
Io ne sono ingorda. Non mi basta mai. Però ne conosco tanti, di spreconi scellerati! Ci sono quelli che si comprano aggeggi improbabili o cruciverba con tripli salti carpiati per “farlo passare” (ma che è, la varicella?!) e, addirittura, degli autentici killer. Quelli che, per esempio, alle nove del mattino di un sabato assolato non hanno di meglio da fare che venire a fare un giretto al centro commerciale. Sono svogliati, incontentabili, frustrati, maleducati. Ammorbano gli addetti vendita, l’ufficio reclami, direttore, vicedirettore, guardia disarmata e noi cassiere con un unico, preciso scopo: ammazzare il tempo. Potrebbero dormire, andare al mare, mangiare un chilo di fragole, ascoltare Bach, giocare a nascondino, dare l’acqua alle piante, festeggiare un compleanno. E invece no. Tutti lì, gli assassini, a polverizzare gli ammennicoli. 
«Bella ingrata!», penserete, «tiri la paga grazie a loro!». Vero. L’odio per il tempo di quei bipedi incoscienti mi dà lo stipendio. Ecco perché detesto i loro volti.
Quasi quanto il mio.

domenica 20 maggio 2012

Tellurica



C’è un motivo per cui, nei momenti in cui mi pigliava la “scipitella”, mia madre mi dava della “scema di guerra, anzi, di terremoto!”. Sono nata nel Settantasei, pochi giorni prima del sisma per eccellenza; e il Friuli, da qui, è distante uno sputo. La terra che sussulta è un’epifania sublime: intimorisce, certo, come tutte le cose che sfuggono al controllo; ma è affascinante, potente, maestosa, nella sua travolgente indipendenza.
È strano. Per spirito di contraddizione, ho sempre opposto al terrore dei miei una certa divertita noncuranza, quanto a eventuali mondani borborigmi: «Eh, l’infarto! Ma su, basta co’sto teatro!» mi affrettavo a ripetere, ridacchiando e voltando le spalle.

Stanotte, alle quattro e tre minuti, ho smesso di fare la spiritosa.

Quella crepa lungo la parete mi pare più larga.
Questa è una casa vecchia, che poggia le fondamenta sulle “brìcole”. Una palafitta che trasuda sale. Una zattera in ammollo nella laguna. Il pavimento è sbilenco e l’anta dell’armadio Ikea sporge più del solito... 
Abbiamo stipato troppa roba, in cima al soppalco che incombe sul lettino del piccolo. E se - magari alle due, o alle tre del mattino - una scossa forte facesse venire giù tutto?
Alle tre e diciotto di oggi pomeriggio il letto ha tremato ancora.

Fuori, nel cielo bigio e carico di pioggia, il solito fiero merlo maschio, geometra nero e leggiadro, disegna spirali auree.
Poi si posa a terra. Scompare per metà nell’erba nuova. Becca e becca e becca. Mi avvicino. 
Sta dilaniando una lucertola.

Neppure fossimo in tempo di guerra.

giovedì 10 maggio 2012

Direzioni



Il cerchio, al primo sguardo, può apparire simpatico. Piano, compiuto, privo di spigoli e asperità. Ma è chiuso, come sa bene Donna Antonomasia. Un circolo autonomo, con un centro che mantiene, tra sé e ogni punto della circonferenza, la medesima distanza. È la chiave del controllo: il perfetto panottico per annichilire l’alterità, ridurla a elemento compositivo, funzionale a un microcosmo sacro, separato, inaccessibile. 
Ed ecco spuntare la linea. Stretta, asciutta, cocciuta. Chissà da dove parte, lei, e dove arriva, soprattutto! Quando essa si accosta al cerchio, viene in contatto con uno solo degli innumerevoli punti sbiechi. Lo tocca, in un minuscolo dove, in un minuscolo quando. Ed è proprio lì che giace l’indicazione sospirata: un cartello d’aria che dischiude una porta nuova, la via di fuga, la falla nel sistema. 
Non prendetevela con me, dunque. Quando abbandono il filo logico che voi imponete, quando scelgo di andare fuori tema, quando rifiuto l’orto perfetto e immacolato del vostro centro, lo faccio per un innato bisogno di trovare la mia strada. 
Se sta stretto anche a voi, quel cerchio, raggiungete lo svincolo. Fate presto, però, ché non attenderò a lungo. Preparerò una valigia leggera, indosserò i sandali di cuoio e, infilata una mela in tasca, partirò. 
Per la tangente. 
Che sarà pure una deviazione fuorilegge ma, cari miei, tende all’infinito!

martedì 8 maggio 2012

Campioni!




Si era a digiuno da un bel po’, noi zebre. A lingua in fuori, abbiamo vagato a lungo per ampie e aride steppe virate al nerazzurro o, peggio, con il cielo tinto di rosso, a far da contraltare alle amabili righe nere. Battutisti scatenati sui social network (una su tutte: “30 scudetti per gli juventini, 28 per la questura”), crisi mistiche ai bar dello sport, infinite code di iettatori, impegnati sino all’ultimo istante, nulla hanno potuto contro l’imbattibilità sul campo della vecchia Signora. 
Lo so, sono una donna, e adulta, oltretutto. Sono perfettamente consapevole di quanto marcio ci sia in Danimarca. Il calcio-scommesse, la Calciopoli tutta - piena zeppa di bande Bassotti, arbitri prezzolati, pay-tv e nandroloni... non vivo sulla luna. Deprime anche me, questo truffaldino, ridicolo circo. 
Ma io sono una tifosa da album Panini, immersa nell’antica poesia del ce-l’ho-manca. Lo zio preferito, gobbo fino al midollo, dopo il “papà” e il “mamma” d’ordinanza, mi ha insegnato a pronunciare la terza parola: “Forzajuve”. I miei tre migliori amici, alle elementari, avevano nomi normali e tifavano per squadre normali, oneste e quadrate: Carlo per la Roma, Sandro per il Como e Mario per il Napoli. Quando la Juve perdeva, andavo a scuola vestita di nero, prona, schiacciata dal nembo del lutto. Qualche volta, persino, rimanevo direttamente sotto le coperte, per non subire l’affronto degli sfottò acidi e compiaciuti dei miei compagni.
Alle bambole e ai giochi pacati e noiosissimi delle bimbe, preferivo la competizione bonaria, robusta dei maschi, tra un fallo da ultimo uomo e una rimessa laterale. La conta tra i due capitani, la lista delle squadre, la speranza di non essere mai l’ultima scelta, che sennò si capisce che sei una pippa con il pallone sui piedi. Il rispetto pesava come piombo, giù al campetto. Eravamo piccoli guerrieri pieni di fiato e fiducia. 

Lo scudetto è nostro, belli miei.
Non rompetemi l’anima: chissenefrega dei quattro bambocci milionari e viziati, che per mestiere corrono, in mutandoni, dietro a una palla! Siamo noi, i campioni d’Italia! Noi che avevamo il poster gigante sopra la testiera del letto, con i bei faccioni di Cabrini e Platini, noi che rosicchiavamo le unghie fino alla carne, per una finale di Coppa Campioni (altro che Sciampionslìg!), noi che, bandiera sulle spalle, pattinavamo lungo il corridoio incerato di casa per un quarto d’ora, dopo un gol di Laudrup.

Si è persino coniata la formula “calcio giocato” per distinguere l’italico passatempo più amato e praticato della nostra storia dalle furbate dei corrotti. Ebbene: che milanisti, interisti, romanisti e compagnia blaterante trascorrano pure il proprio tempo a dissertare su quello che pare a loro.
Da qui in cima, con un sorriso beato stampato sui denti, non ci resta che fare spallucce, girare i tacchetti e continuare a canticchiare “I campioni dell’Italia siamo noooi!”

lunedì 30 aprile 2012

36




Mi sembrava un numero particolarmente insipido, fino a qualche ora fa. Dopo l’opportuna overdose di zuccheri - che la crema pasticciera è un’arte perigliosa - un caffè corretto panna montata, la candelina spenta (una e simbolica, che non ci sono estintori a portata di mano) e una solida Diana Blu, devo ammettere che la prospettiva è cambiata.
Trentasei. 
Diciotto? Sì, per-due, come le gambe. La boa della maggiore età oltrepassata a pelo d’acqua; e pure a contro-pelo, già che c’ero. Non amo le cifre tonde ma forse, questa, un senso ce l’ha (con buona pace di Vasco Rossi).
Non mi dispiacciono le rughe. Quelle che s’impennano sotto gli zigomi, quelle che arricciano il naso, quelle che increspano le palpebre. Perché suggeriscono, nemmeno troppo in sordina, che la mia faccia, da quando ha imparato a ridere, non ha più smesso.
La pelle non è più tonica, qualche capello è impallidito inesorabilmente, la taglia trentotto è alla conquista della quarantadue, la schiena fa le bizze. 
Chissenefrega. È tutto talmente naturale da essere sacrosanto e perfetto.
I cento “buon compleanno” degli amici, il piccolo che canta, con il papà, “Tanti auguri a te” (mettendoci persino la erre!), la cagna che scodinzola e, fuori, le lucertole che si rincorrono, in un instancabile zig-zag tra il pesco, l’albicocco, il glicine e i girasoli. 
Ecco cos’è, che trasforma un insulso 36 in un pomeriggio di primavera.